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Il razzismo nello sport: da Don Haskins e Muhammad Ali a Koulibaly e Kean

È dura essere neri. Siete mai stati neri? Io lo sono stato una volta quando ero povero

L. Holmes

Razzismo e sport sono due parole che non hanno nessun senso vicine: metterle nella stessa frase è una forzatura. Lo sport è condivisione, è unione, il razzismo è tutto il contrario. Ma lo sport è anche la manifestazione più chiara di una società e la nostra è una di quelle in cui le distanze sociali diventano sempre più marcate, in cui l’ignoranza e la paura del prossimo fanno sì che anche una suggestione possa  diventare concreta fino a generare un effetto domino con conseguenze reali e pericolose. È il Teorema di Thomas: “se gli uomini definiscono reali certe situazioni, esse saranno reali nelle loro conseguenze”. Quello che ci fa comunque ben sperare è che esistono da sempre uomini e donne che cercano di cambiare il sistema, che con le loro azioni hanno smascherato la stupidità del razzismo.

Don Haskins

Don Haskins, una vita contro il razzismo

Erano gli anni Sessanta e in America la supremazia dell’uomo bianco su quello nero sembrava essere la mentalità dominante in ogni settore. Qualche eccezione c’era, ovviamente, ma erano, appunto, solo eccezioni. In alcuni Paesi il razzismo era imperante anche nello sport e sembrava non esserci via d’uscita, tranne che per un uomo, Don Haskins. Il basket in Texas era una cosa da bianchi perché ritenuti più intelligenti, più abili e più intuitivi e tra le squadre universitarie vigeva una regola non scritta: il numero dei neri in campo andava limitato. Al Texas Western College arrivò in panchina un uomo bianco e ottimo stratega. Donald Haskins prese in mano una squadra sull’orlo del fallimento, senza soldi (non c’erano fondi nemmeno per acquistare l’attrezzatura sportiva) e iniziò a comporre la sua formazione con gli scarti delle altre compagini universitarie. Erano giocatori mediocri e tra loro, come da regola, erano presenti solo 3 uomini di colore. Con pochi dollari in tasca, la maggior parte dei quali personali, Don Haskins partì alla ricerca di giovani talenti in giro per l’America. Dovevano essere della classe del 1943 e possibilmente neri, e mentre lui perlustrava le palestre e i campetti di strada, Martin Luther King illuminava l’America con i suoi discorsi e Malcom X veniva brutalmente assassinato. Il roaster presentato da Haskins prevedeva 7 giocatori di colore e 7 giocatori bianchi. La rivoluzione era appena iniziata.

Superate le agitazioni iniziali, oltrepassate le critiche e le rivolte per una scelta così azzardata per il periodo, Don Haskins compì il vero miracolo texano. Quella che fino all’anno prima era una squadra sull’orlo del fallimento divenne la regina del campionato NCAA con solo una sconfitta su 24 partite in regular season. La vittoria nelle final four contro Utah nella NCAA Division del 1966 portò il Western Texas College in finale, dove The Bear, soprannome di Haskins, sconfisse i Kentuky aggiudicandosi il titolo con il quintetto base interamente formato da giocatori neri. Per il suo coraggio, la sua forza e il suo carisma, oltre che per l’impresa compiuta in Texas, Don Haskins è entrato di diritto nella Naismith Memorial Basketball Hall of Fame, la più prestigiosa galleria del basket mondiale, dove il suo nome è inciso insieme ai grandi della storia.

Muhammad Alì

Muhammad Alì, l’eroe che mise KO il razzismo

Mentre Don Haskins, uomo bianco tra uomini neri, portava la sua rivoluzione nel basket, abbattendo qualsiasi pregiudizio razzista, un uomo nero iniziava a combattere per la libertà dei suoi fratelli neri. Nato Cassius Clay in Kentucky nel 1942, Muhammad Alì è stato uno dei pugili più grandi della storia. Un ragazzone dal fisico statuario che sembrava scolpito nell’ebano, un pugno devastante e grandi ideali ne hanno fatto un eroe moderno. Tra gli anni Sessanta e Settanta con le sue idee e le sue interviste ha contribuito alla lotta contro il razzismo e contro la guerra in Vietnam. Si rifiutò di partire per la guerra perché non aveva motivo di andare a combattere i Vietcong: “Non mi hanno mai chiamato ‘nigger’, ci mandano a combattere guerre che non sono nostre”, dirà in un’intervista divenuta storica. Iniziò la sua avventura nel pugilato per merito di un poliziotto che ne aveva intravisto le potenzialità; nel 1960, durante le Olimpiadi di Roma, ad appena 18 anni Cassius Clay vinse il suo primo titolo internazionale dei medio-massimo, saltando agli onori delle cronache mondiali. Da quel momento la sua è stata un’ascesa inarrestabile con la vittoria del titolo mondiale dei pesi massimi nel 1964, anno in cui si convertì all’Islam, diventando per tutti Muhammad Alì. Il suo rifiuto di andare in Vietnam pesò drasticamente sulla sua carriera (gli costò la perdita della licenza di pugile professionsta) e ancora di più la sua decisione di convertirsi all’Islam. Muhammad Alì odiava il suo nome di battesimo, lo considerava un nome da schiavo e da uomo non libero. Gettò le sue medaglie olimpiche nel fiume dopo che gli venne vietato l’accesso a un ristorante e in una delle sue interviste più celebri si scagliò duramente contro il razzismo imperante negli Stati Uniti, affermando il diritto ai diritti degli uomini neri. I suoi match dopo il riottenimento della licenza da pugile non furono solo incontri di boxe, perché da quel momento, sul ring, Muhammad Alì portò le lotte contro i razzismo e la voce di tutti i suoi fratelli neri.

Il pugno a Città del Messico

E cosa dire di Tommie Smith e John Carlos che durante la premiazione dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968 (3 mesi dopo l’assassinio di M. L. King), per protesta salirono sul podio con la testa bassa e il pugno alzato? Gesto ripreso anche dai giocatori della NFL per protestare contro le politiche di Trump. Quel gesto costò ai due atleti seri problemi. Furono cacciati dal villaggio olimpico e al ritorno in USA subirono minacce e intimidazioni varie e vennero espulsi dall’esercito per indegnità. Ma chi pagò il prezzo maggiore fu Peter Norman, il ragazzo bianco della famosa foto. Nel sottopassaggio che andava dagli spogliatoi al podio Norman assistette ai preparativi dei due americani. Tutto era fortemente simbolico, dalla mancanza di scarpe (indica la povertà) alla collanina di piccole pietre che Carlos mise al collo (ogni pietra era un nero che si batteva per i diritti ed è stato linciato). Smith e Carlos gli spiegano tutto e Norman disse: “Datemi uno dei distintivi, sono solidale con voi. Si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti”. Così anche Norman mise la coccarda sulla tuta. Quell’atto renderà la sua vita un infermo. Tornato in Australia, venne completamente dimenticato. Nonostante  fosse il miglior sprinter del Paese non venne convocato per le Olimpiadi successive, la sua carriera ebbe un tracollo pauroso tant’è che dovette arrotondare lo stipendio lavorando in una macelleria. Morì nel 2006 e Smith e Carlos ressero la sua bara.

Cosa possiamo fare?

Sono passati anni, decadi dalle lotte tra bianchi e neri, ma ancora oggi il razzismo rimane, si passa di bocca in bocca e germoglia lì dove dilaga l’ignoranza. Non è solo una questione di pelle, ma è trasversale a qualsiasi differenza tra le persone. Lo sport subisce tutto questo, ma senza una lotta di tutto il sistema questa piaga non troverà mai fine. Pensate alle ultime giornate di Serie A, rovinate prima dagli ululati a Koulibaly e dagli scontri tra ultras a Milano e poi dagli insulti a Meïté all’Olimpico di Roma e Kean a Cagliari. Ma prima di loro sono stati tantissimi i calciatori che hanno denunciato, come Kevin Prince Boateng che abbandonò una partita amichevole, togliendosi la maglia del Milan, per protesta contro i cori razzisti. O come Marco André Zoro che durante un’Inter-Messina prese la palla e fermò il gioco dopo aver subito fischi e insulti da parte della curva interista. Minacciò di andare via, ma incoraggiato dai giocatori nerazzurri riprese a giocare.  In Inghilterra esistono leggi apposite contro il razzismo negli stadi e molte società, come il Chelsea, hanno istituito dei veri e propri corsi contro il razzismo per i loro tifosi. Probabilmente però, più che guardare agli inglesi dovremmi copiare dai tedeschi. Dagli anni 90  in Germania vige la regola del “50+1“, la maggioranza delle quote è dei tifosi che in questo modo diventano soci. Una norma che non solo tutela la tifoseria e la sua importanza, ma permette anche di “educare” il tifoso che si sente più responsabilizzato. Certo ad eccezione dei club medio-piccoli, questa regola viene sempre più boicottata dai top club perché limita la possibilità di grossi investimenti privati. Del resto lo sappiamo, da quando il rapporto con i tifosi è più importante dei soldi?

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