Bela-Guttmann

La maledizione di Béla Guttmann

Il 22 maggio 1990, Eusébio è nel cimitero ebraico di Wigner Zentralfriedhof a Vienna; ha con sé dei fiori, sono per il suo vecchio allenatore, colui che lo scoprì e lo portò alla fama internazionale. La Pantera Negra si ferma davanti alla tomba, lascia i fiori, dice qualche parola e va via. L’atto ossequioso dell’icona del calcio portoghese non è solo l’omaggio di un discepolo verso il suo maestro, ma è, soprattutto, il tentativo ufficiale di perdono di un’intera città. È l’ammissione di colpevolezza delle aquile lisbonete dopo quasi trent’anni di ritardo. Quell’allenatore, infatti, è Béla Guttmann, l’uomo che all’inizio degli anni Sessanta rese il Benfica una squadra leggendaria.

Scampato all’olocausto, alla Grande Crisi del 1929 quando perse 55.000 dollari, cittadino del mondo, andando ad insegnare calcio perfino ai campioni brasiliani (fu sua la straordinaria invenzione del 4-2-4 tutto attacco e fantasia con cui poi la nazionale verdeoro vinse il Mondiale del 1958), Béla Guttman divenne l’allenatore del Benfica nel 1959. Ci arrivò già come campione del campionato portoghese giacché l’anno prima vinse il titolo con gli acerrimi nemici del Porto. Come suo costume le sue pretese economiche furono elevate. Normale per un uomo che aveva perso tutto due volte in 40 anni di vita. Difficile biasimarlo. Chiese ed ottenne uno stipendio di quattrocento contos annuali più centocinquanta per la vittoria in campionato, cinquanta per la coppa nazionale e duecento per la Coppa dei Campioni; un dirigente, dubbioso circa la possibilità di conquistare l’ultimo trofeo, rilanciò dicendo di chiederne non duecento ma trecento. Questo fece di Guttman uno degli allenatori più pagati dell’epoca.

Non mi sono mai preoccupato di sapere se gli avversari avessero segnato, perché ho sempre pensato che noi avremmo potuto segnare ancora

Il suo stile di gioco era corale e votato all’attacco. Si basava su lanci lunghi per superare il centrocampo avversario e una volta vicini all’area di rigore, lo schema prevedeva una ricca rete di passaggi corti per avere maggiore precisione nel tiro, il famoso passa-repassa-chuta (passa-ripassa-tira). Era anche un allenatore estremamente attento ai dettagli, concentrandosi finanche sul naso dei propri giocatori, convinto che, qualora questo fosse stato intasato, non avrebbe offerto una buona respirazione, incidendo così sulla loro prestazione.

Il primo anno il Benfica vinse il campionato, il secondo ottenne il Double, vincendo la sua prima Coppa dei Campioni contro il Barcellona.

Si rivelò veramente decisivo il contributo di Béla Guttmann, psicologo per eccellenza, esemplare nel modo in cui ci motivò per la partita, mentre forgiava una strategia che puntava allo strangolamento del calcio degli spagnoli, con Neto e Mário João chiamati a svolgere compiti di considerevole importanza, mentre in attacco, io, Santana e José Águas, Coluna e Cavém tentavamo di fare il resto, sforzandoci di battere una difesa quasi granitica.

José Augusto

Il suo terzo anno alla guida dei lusitani non iniziò nel migliore dei modi: perse la finale della Coppa Intercontinentale contro il Peñarol Montevideo, accusando la dirigenza di aver mal organizzato la trasferta. Nonostante questo inizio incerto, la stagione migliorò grazie anche all’inserimento in squadra di un giovane attaccante di origini mozambicane, Eusébio. Dopo aver sconfitto gli inglesi del Tottenham, il Benfica per il secondo anno consecutivo raggiunse la finale di Coppa dei Campioni. Per vincerla bisognava battere il Real Madrid di Puskás e Alfredo Di Stéfano. Alla fine del primo tempo le merengues vincevano per 3-2. Si racconta che Béla, entrato negli spogliatoi, disse convinto: “La partita è vinta. Loro sono morti“. Al 90’ minuto il risultato fu di 5-3 per Eusébio e compagni e il Benfica alzò la sua seconda ed ultima coppa europea al cielo.

Il 4 maggio, due giorni dopo la vittoria, Béla invece del premio in denaro ottenne una lettera di licenziamento. Il motivo? Il terzo posto in campionato, ma come disse lo stesso allenatore magiaro: “non avevamo il culo per sederci su due sedie“. La reazione di Béla al licenziamento fu nel suo stile: non si lamentò, non convocò una conferenza stampa, non andò negli uffici di António Carlos Cabral Fezas Vital, presidente del club, per chiedere spiegazioni. Nulla di tutto ciò. Si limitò a… maledire il club:

Me ne vado per sempre, ma sappiate che d’ora in avanti il Benfica non vincerà più una coppa internazionale per almeno 100 anni

Così eccolo Eusébio con quel mazzo di fiori a tentare di convincere il suo mentore a rompere la maledizione. Ma per un uomo che viveva per il proprio orgoglio un mazzo di fiori è poca cosa. La finale di Coppa Campioni del 1990 fu la quinta sconfitta consecutiva del Benfica in una finale di una coppa internazionale. A 57 anni di distanza il conto è aumentato ad 8 finali perse, ultima quella ai calci di rigore del 2014 contro il Siviglia.

Michel de Montaigne scrisse che “vi sono sconfitte trionfali in confronto alle vittorie“. Ripensando al Benfica non si può non essere d’accordo. Mi piace pensare, però, che nel 2063 allo scadere della maledizione, il Benfica possa vincere e quella vittoria possa essere la somma  delle gioie soppresse di tutte le finali perse e che da lassù anche il buon Béla possa sorridere, sapendo di aver vinto un’altra volta.

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