VUJADIN BOŠKOV

Vujadin Boškov

Vero. Forse è questo l’aggettivo migliore, ma certamente non l’unico, con cui poter descrivere la figura di Vujadin Boškov. Vero sportivo, ma ancor prima vero uomo, di quelli di una volta con la testa sulle spalle, dedizione al dovere e cultura da dispensare. Una persona così non può passare inosservata, ancor meno nel mondo del calcio, tra giornalisti feroci, critici che vanno giù pesante e astri nascenti pretenziosi caduti ancor prima di brillare. Chissà come si sarebbe trovato ad allenare al giorno d’oggi. Di fronte alle telecamere di certo avrebbe avuto la stessa sfrontatezza, ironia e disarmante ovvietà che lo hanno contraddistinto durante tutta la sua carriera da allenatore, quando riusciva a smorzare commenti e discussioni post-partita con frasi del tipo:

Rigore è quando arbitro fischia

Boškov amava il calcio e portava in esso i suoi valori, trasmettendoli ai ragazzi che allenava. Voleva che i suoi giocatori sapessero comportarsi dentro e fuori dal campo; teneva a bada le teste calde e aveva spie ovunque in città per controllare la loro vita notturna, come ammise buffamente in un’intervista. In campo bisognava dare sempre il massimo. Precisione, velocità e gioco di squadra lo contraddistinguevano; era un professore, che sapeva abilmente tenere in equilibrio trionfo e sconfitta, talento individuale e obiettivi collettivi. Riusciva a tirare fuori il meglio dai suoi giocatori con il lavoro e il sacrificio, ma lasciava esplodere il loro estro, ben consapevole che:

Senza disciplina vita è dura

Un grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri

Ironico e allegro, ma anche sottile, arguto e tratti tagliente, caratteristiche mitigate dalla sua incredibile semplicità che ha conquistato Genova e l’Italia intera.
Una mente calcistica come poche che la malattia ha lentamente spento impedendogli di assaporare fino in fondo il mito che ha rappresentato per tante persone e i ricordi di una vita brillante. Gli ultimi tempi li ha trascorsi con la sua famiglia, con la sua amorevole moglie e lontano da occhi indiscreti e chiacchiere (seppur affettuose) giornalistiche. Ha voluto essere seppellito nel suo piccolo villaggio balcanica, Begec, con pochi amici ad assistere.
Il nipote Borislav, oggi venticinquenne, lo ricorda come un nonno fuori dagli schemi che vedeva poco ma sentiva molto vicino, che gli diceva di studiare tanto e non passare tutto il tempo con il pallone.

Ma anche lui era stato un ragazzo agguerrito, allegro e sfacciato, come quella volta che insieme ad un gruppo di giovani slavi sfido’ Stalin e ciò che egli all’epoca rappresentava. Era il 1952, il secondo conflitto mondiale era finito da poco e nell’aria aleggiava già l’ombra della guerra fredda. A Helsinki si giocavano le olimpiadi e l’Urss pretendeva che la sua delegazione si imponesse in tutte le discipline, nessuna esclusa. Il calcio su tutte. In Jugoslavia intanto, una squadra di ragazzi con potenza e cuore da vendere si preparava con entusiasmo a vivere questa esperienza. Tra di loro esordiva un giovane centrocampista con tanto fiato e piedi buoni: Vujadin Boskov. Ma il destino gioca brutti scherzi e la distanza politica tra la la Jugoslavia e l’ecosistema sovietico si sublimò in un campo di calcio. Il match fu rocambolesco, gli slavi passarono presto in vantaggio e giocarono nettamente meglio, ma i sovietici tosti riuscirono a riprenderlo. Fu 5 a 5, e visto che la roulette dei rigori ancora non era stata inventata, l’appuntamento fu rimandato a due giorni dopo, per rigiocare. La Jugoslavia si preparò ad affrontare la sfida consapevole delle insidie e dei pericoli politici che questa avrebbe potuto riservare. Il regime sovietico già irritato dalla sconfitta evitata in extremis impose al ct la formazione da schierare e le sostituzioni rispetto alla prima partita. Tensione ed entusiasmo, pressione ed atletismo. Alla fine la Jugoslavia riuscì a spuntarla, i sovietici terminarono la partita senza un solo grammo di forza per opporsi a quei ragazzi terribili. Purtroppo, il sogno di Boskov e compagni si infranse poco dopo contro la squadra più forte, l’Ungheria del colonnello Puskas. Un secco 2-0 e la Jugoslavia salì sul treno di torno, nonostante tutto soddisfatta e celebrata in patria.
La storia calcistica di Boskov inizia così, preannunciando una vita sportiva di grande carattere. Lo stesso che Zio Vujadin ha sempre avuto, ogni giorno, fino alla fine.

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