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Come Mandela ricostruì il Sudafrica grazie al rugby

Il momento cruciale nella lunga lotta per la democrazia del paese è avvenuto in quello stadio

É il 24 giugno 1995, stadio Ellis Park di Johannesburg. Gli Springboks affrontano gli All Blacks. Gli occhi di tutti il mondo sono puntati su quel campo e sull’uomo che da poco più di un anno è diventato Presidente del Sudafrica, Nelson Mandela. Al suo ingresso nello stadio la folla lo acclama e all’unisono grida il suo nome: “Nelson! Nelson! Nelson!”.

Eppure 3 anni prima, l’accoglienza fu ben diversa. Mettendosi contro il suo partito, l’ANC (African National Congress), aveva concesso alla minoranza afrikaners uno dei suoi riti più importanti: le partite di rugby, boicottate da 10 anni. In cambio aveva chiesto un gesto simbolico: un minuto di silenzio in memoria delle vittime dell’apartheid. I boeri accettarono. Proprio prima dell’inizio della sfida del 1992 contro i neozelandesi lo speaker chiamò il silenzio, ma i bianchi tradirono la parola data. Tutto lo stadio intonò Die Stem, l’inno di stato dell’apartheid. L’atmosfera si fece tesa; i giornalisti presenti chiamarono le loro famiglie: «Chiudetevi nei rifugi con i bambini, non sappiamo se potremo tornare a casa». L’ANC non poteva accettare un simile affronto in mondo visione, la guerra civile era ad un passo. Ma Madiba difese gli afrikaners. Era convinto che il Sudafrica per poter essere finalmente una nazione unita avrebbe dovuto anteporre il perdono alla vendetta. E 3 anni dopo dimostrò di aver avuto ragione.

L’apartheid era una piaga che durava dal 1948 quando il National Party vinse le elezioni. Nato inizialmente come “rapporto di buon vicinato tra bianchi e neri”, ben presto divenne una ghettizzazione del popolo nero, al pari delle nostrane leggi razziali del 1938. Cinque milioni di bianchi espropriarono di terre, ricchezze, libertà e futuro venticinque milioni di neri. Venne effettuato un censimento su tutta la popolazione in cui per essere riconosciuti come bianchi bisognava dimostrare di avere entrambi i genitori di etnia bianca. Per verificare le informazioni si procedeva con interrogatori estenuanti a parenti e conoscenti dell’inquisito; per le situazioni più in bilico si ricorreva al test della matita: si appoggiava una matita alla radice dei capelli, se non cadeva, trattenuta dai ricci, la razza bianca non era pura. Con questo metodo molti bianchi vennero classificati come meticci.

Per 36 anni qualsiasi relazione intima tra razze diverse venne proibita: i fedeli neri erano costretti a prendere la comunione solo dopo che l’ultimo bianco aveva lasciato l’altare; tutti i cittadini non bianchi erano obbligati a portare con sé il reference book, un libretto da esibire davanti a qualsiasi autorità, pena l’arresto immediato; alle persone di colore era vietato accedere a spiagge, cinema e locali frequentati dagli europei; ai neri era consentito aprire attività commerciali in territori bianchi, ma in caso di reddito eccessivo erano costretti a chiudere e ritornare nei bantustan. Mandela divenne leader del movimento anti-apartheid nel 1952 e nel 1955 aprì insieme ad Oliver Tambo l’ufficio legale Mandela e Tambo che forniva assistenza gratuita o a basso costo a molti neri che sarebbero rimasti altrimenti senza rappresentanza legale. Venne arrestato nel 1963 con l’accusa di sabotaggio e cospirazione. Rimarrà in prigione per 27 anni. 27 lunghi anni, la maggior parte dei quali trascorsi in isolamento. Ed è proprio in questo periodo che si avvicinò al rugby.

Un giorno fece richiesta di un fornelletto da cucina per riscaldarsi il cibo in cella, ma fu più volte respinta; così decise di rivolgersi direttamente al maggiore Van Sittert, capo della prigione. Il maggiore era un grande appassionato di rugby, perciò per avere un argomento di conversazione con lui e farselo amico Mandela passò oltre un mese a leggere articoli di giornale dedicati alla palla ovale finché non ottenne il tanto agognato fornelletto. Madiba era un grande appassionato di sport: da giovane aveva praticato la boxe a livello amatoriale, ma per creare uno stato libero, aperto alle diverse etnie che lo animavano, scelse lo sport dei bianchi, degli oppressori.

Una scelta insensata per molti del suo partito, folle per tutti gli altri. Eppure c’era una ragione: per fare un popolo bisogna che le divisioni e le prevaricazioni dei più forti lascino il posto alla coralità di tutte le differenze. Se in un Paese come il Sudafrica le diverse etnie avessero concesso ad una sola di primeggiare si sarebbe proposta un’altra apartheid, a tinte nere questa volta. La grandezza di Mandela risiede tutta nella comprensione che la storia non la scrivono sempre i vincitori. Così scelse lo sport come base per creare il popolo sudafricano.

Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, di unire le persone in una maniera che pochi di noi possono fare. Parla ai giovani in un linguaggio che loro capiscono. Lo sport ha il potere di creare speranza dove c’è disperazione. È più potente dei governi nel rompere le barriere razziali, è capace di ridere in faccia a tutte le discriminazioni.

E non uno sport qualsiasi, ma il simbolo della minoranza bianca. Costruendo una squadra, Mandela ricostruì il Paese. Agli uomini della sua scorta, composta da sei bianchi e sei neri, chiarì il suo sogno: «La nazione arcobaleno nasce da qui. Intorno a me voglio le due anime del Sudafrica». Prima di affidare questo arduo compito agli Springboks, in occasione dei mondiali del 1995 convocò il loro capitano, Jacobus François Pienaar. Durante l’incontro il neo presidente diede al capitano un foglio su cui era riportata una poesia di William Ernest Henley. Per superare le aspettative, per fare quello che nessuno era mai riuscito a fare serviva dare a tutti qualcosa in cui credere. Mandela chiese a Pienaar di ispirare i sudafricani. Quella poesia aveva aiutato Mandela a resistere giorno dopo giorno per 27 anni in una cella di 6mq a Robben Island. Era stata la sua ispirazione per non abbattersi e fare sempre di più, sempre meglio. 

Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo da un estremo all’altro,
Ringrazio qualunque dio ci sia
Per la mia anima invincibile.

Nella stretta morsa delle avversità
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi avversi della sorte
Il mio capo sanguina, ma non si china.

Oltre questo luogo di rabbia e lacrime
Incombe solo l’orrore della fine.
Eppure la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.

Non importa quanto stretta sia la porta,
Quanto impietosa sia la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

Pienaar capì il messaggio. Mesi prima dell’inizio del mondiale vennero organizzati diversi momenti per avvicinare la nazionale a tutta la popolazione nera, a cominciare dagli allenamenti aperti al pubblico. Su suggerimento dello staff della nazionale, poi, i giocatori impararono a memoria Nkosi Sikelele, l’inno nazionale per la popolazione nera in lingua Xhosa – una delle 11 riconosciute dallo Stato. Durante il ritiro Mandela chiamava spesso Pienaar per chiedere aggiornamenti sulla squadra “I ragazzi sono concentrati? Stanno bene? Sono rilassati?“. Un giorno fece una visita a sorpresa alla squadra: arrivò in elicottero, li salutò e gli disse: “Avete l’opportunità di fare una gran cosa per il Sudafrica, e di unire la gente. Ricordate solo questo, che tutti noi, neri o bianchi, siamo con voi“.

Ed eccoci a quel 24 giugno. Gli Springboks più volte andarono in svantaggio e tutte le volte riuscirono a recuperare fino a quel calcio di rimbalzo nei tempi supplementari in cui la palla, per citare l’arcivescovo Desmond Tutu, fu scortata dagli angeli in mezzo ai pali. Il Sudafrica aveva vinto il Mondiale e la Nazione Arcobaleno era appena nata. Mandela consegnò personalmente il trofeo a Pienaar, e gli disse: “Grazie per tutto quello che avete fatto per il nostro Paese“. Pienaar rispose: “No, signor presidente, grazie a Lei per quello che ha fatto per questo Paese“.

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