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La Redbullizzazione del calcio

Bangkok, 1982. Un giovane austriaco, marketing manager della Procter&Gamble, entra in un hotel ed ancora spossato dal jet lag chiede un drink che lo rimetta in sesto. Il cameriere gli serve un drink molto popolare da quelle parti, soprattutto tra i camionisti. Non è una bevanda gassosa, ha il sapore di uno sciroppo, ma raggiunge il suo scopo. Il giovane manager è carico, pronto per la sua riunione. Qualche tempo dopo, nel suo secondo viaggio nel sud-est asiatico, questa volta ad Hong Kong, il nostro giovane e rampante manager è nella hall dell’hotel Mandarin, sta leggendo Newsweek. Si sofferma su un articolo dedicato alle fortune di un imprenditore giapponese, produttore di un drink con taurina e caffeina molto simile a quello provato a Bangkok, ed in quell’istante scatta la scintilla. Capisce le potenzialità e decide di commercializzare una bevanda simile. Cambia leggermente il gusto, la rende gassosa e aggiunge importanti dosi di zucchero. Passano diversi anni e quell’uomo, Dietrich Mateschitz, che aveva impiegato 10 anni per ottenere una laurea in marketing e gestione aziendale è a capo di un dei colossi mondiali del food&beverage, la Red Bull. Un’azienda capace di vendere in un anno oltre 6 miliardi di lattine in tutto il mondo, in pratica quasi una per ogni abitante della Terra. Ma l’intuito del magnate austriaco va oltre. Capisce che il brand deve parlare ai giovani così entra nel mondo dello sport, ma non tutti gli sport, solo quelli che sposano i valori di adrenalina, avventura ed energia della Red Bull. Per questo il calcio non gli interessa, almeno all’inizio.

Se è vero che il calcio è lo specchio della società allora possiamo affermare che è un animale instabile che vive di contraddizioni. Non c’è mai una linearità negli eventi perché il processo dominante ingloba in sé anche quelli che lo seguiranno; il ciclo di vita non prevede solo fasi nette e definite, ma sempre momenti di transizione, fasi indefinite in cui fatichiamo ad orientarci. Quello che stiamo vivendo è proprio uno di questi. In quest’ultimo decennio il calcio ha raggiunto un livello massimo di globalizzazione. A breve le partite dei nostri campionati verranno giocate in qualche capitale araba, asiatica o americana, nel frattempo assistiamo a proprietà straniere che gestiscono le squadre a migliaia di chilometri di distanza e che affidano la gestione operativa della società a manager il cui scopo primario non è la vittoria, ma la sostenibilità finanziaria. Ed anche noi tifosi siamo cambiati, abituati  guardare le partite del campionato bielorusso comodamente sul divano, ad avere accesso riservato agli spogliatoi nel pre-partita e ad avere in real time tutte le indiscrezioni su squadre, giocatori e wags. Tutto questo con una semplice connessione ad Internet. 

Come in una pura operazione di marketing ha imposto un modello di business in cui le squadre sono delle filiali commerciali prima ancora che realtà sportive.

Ed è in questo contesto che la Red Bull ha deciso di entrare nel calcio e lo ha fatto a suo modo. Se in passato abbiamo assistito a proprietà straniere che gradualmente entravano nella storia del club con un certo grado di umiltà, entrando in punta di piedi e cercando di farsi accettare dai tifosi e da tutta la comunità sportiva, l’azienda di Mateschitz ha adottato un approccio diametralmente opposto. Come in una pura operazione di marketing ha imposto un modello di business in cui le squadre sono delle filiali commerciali prima ancora che realtà sportive. È iniziato tutto con l’acquisizione della prima squadra di calcio nel 2005, l’Austria Salzburg. La Red Bull le cambiò nome, stemma, colori sociali oltre ad un profondo rinnovamento di tutto lo staff dirigenziale e tecnico. Qualsiasi legame con il passato della squadra fu spazzato via. Il Red Bull Salisburgo, il nuovo nome del club, iniziò a vincere come mai prima, ma molti tifosi, contrari alla nuova gestione, decisero di fondare un nuovo club, l’SV Austria Salzburg. Nel 2006 fu il turno dei New York MetroStars che diventarono i New York Red Bull oltre a cambiare logo e colori sociali. In più, la rivoluzione coinvolse anche lo stadio: fu abbandonato quello dei Giants e costruito uno di proprietà, la Red Bull Arena. Uno stadio da 25mila posti che, grazie alla riduzione dei prezzi dei biglietti, continua ad essere sempre pieno nonostante le prestazioni non così esaltanti della squadra. Nel 2007 fu poi, il turno della Red Bull Brasil e nel 2008 quello della Red Bull Ghana per arrivare infine al 2009, anno in cui la Red Bull acquistò una piccola squadra di Lipsia, questa volta però non senza problemi.

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Il “trattamento Red Bull”, che prevede oltre al totale cambio d’immagine anche una gestione amministrativa e sportiva centralizzata (un solo direttore sportivo per tutte le squadre), dovette fare i conti con l’ostilità dei tifosi tedeschi. La scelta di puntare sul Lipsia non fu casuale, ma dettata dall’importanza della città con uno stadio moderno da 44 mila posti e dalla disparità di blasone e di livello tra le squadre della Germania Est rispetto a quella ovest (retaggi di un passato ancora da superare). Così il Lipsia con i giusti investimenti sarebbe potuta diventare in breve tempo nel progetto della Red Bull la più importante squadra della parte orientale del Paese. L’intenzione era quella di comprare il Sachsen, squadra storica della città, ma le proteste furono così accese che la Red Bull dovette ripiegare sul Markranstädt, piccola squadra di un paesino alle porte della città, non senza garantire ai tifosi contrari la rifondazione di un altro Markranstädt. Superato il problema della squadra, ecco quello legato al nome. La normativa tedesca non permise di poter inserire il nome del brand così la multinazionale chiamò il club RasenBallsport Lipsia (dove RasenBallsport sta per “sport della palla sul campo”) in modo da poterlo abbreviare in RB Lispia. Sempre per via del regolamento tedesco la Red Bull non potè inserire il suo marchio nel logo della squadra così per ovviare mise due tori stilizzati. Come se non bastasse il colosso si trovò di fronte il divieto di intestare la maggioranza azionaria del club ad un unico soggetto così creò una società a garanzia limitata per un gruppo ristretto di soci con quota di entrata fissata a 800 euro, almeno dieci volte superiore a quella degli altri club. Ciononostante l’RB Lipsia in pochi anni è diventata una squadra di primo livello sia in Germania che in Europa, nonché la più odiata dai tifosi tedeschi. E questo non può non far riflettere.

In un’intervista di qualche mese fa Quique Setién ha affermato che stiamo generando una generazione di fallimenti, di perdenti. Una generazione che non sa vivere con la sconfitta, frutto di una società che educa a vincere e che si misura solo sulla perfomance. Una società liquida, per dirla alla Bauman, che non ha più memoria, dove tutto è a breve termine. Tutto si sta omologando verso una standardizzazione di modelli e di gusti preoccupante. Con estrema facilità vengono esaltati e pagati a peso d’oro giovani calciatori e con la stessa velocità queste giovani promesse vengono abbandonate e segregate in qualche squadra di serie minore con la loro carriera ormai bruciata. È la redbullizzazione del calcio: si compra quello che non si ha, spazzando via tutto quello che c’era prima; i tifosi trattati come clienti ed i calciatori come semplici pedine per far registrare un più sui bilanci. La Red Bull promuove uno stile di vita basato sull’adrenalina e sul successo di una vita vissuta sempre al massimo. Una vita in cui le cose vanno bene solo se sono produttive. Se lo sono adesso. Se lo sono già. Fai una cosa bene oggi e domani la dovrai fare meglio. Non c’è posto per il fallimento. Ma per ogni Cristiano Ronaldo ci sono tanti giocatori che non ce l’hanno fatta. Per ogni RB Lipsia ci sono squadre che rischiano di scomparire per sempre. Abbiamo bisogno di pazienza. Abbiamo bisogno di profondità. Abbiamo bisogno di una pausa.

Questo articolo prende spunto da un approfondimento uscito sulla rivista spagnola Panenka.

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