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L’NBA al tempo del Covid-19

Mancano pochi minuti alla palla a due della partita tra Thunder e Jazz. Alla Chesapeake Energy Arena di Oklahoma City c’è l’atmosfera di sempre. Migliaia di tifosi attendono l’inizio dell’incontro tra due squadre in orbita play off. Qualcosa però si inceppa. I giocatori rientrano all’improvviso negli spogliatoi, lasciando di sasso il pubblico sugli spalti. La ragione ufficiale è un meeting straordinario con gli arbitri in merito all’emergenza Coronavirus. Nella realtà dei fatti la decisione era già stata presa. Non si gioca. In America è la sera dell’11 marzo, in Italia deve ancora sorgere il sole. L’immagine che ritrae i giocatori dei Thunder e dei Jazz prendere la via per gli spogliatoi è ad oggi l’ultima scena spendibile per girare una pellicola sull’Nba pre Covid-19. Dopo di allora il silenzio assordante di un tabellone spento, un parquet immacolato, una sirena strozzata. La Nba si è fermata. Anche se non è la prima volta che questo accade.

Il tempo delle scelte sostituisce lo show time, specialità della casa. La linea telefonica tra Commissioner e Leghe si fa rovente. Si gioca, non si gioca. Porte aperte, porte chiuse. Alla fine arriva la scelta, quella più sofferta: stop di almeno 30 giorni, poi si vedrà. Da quell’11 marzo di cose, nel frattempo, ne sono successe tante. A partire dal mea culpa solenne di Rudy Gobert, il caso-1 (o l’untore, come lo hanno dipinto in tanti), dopo il video scandalo girato pochi giorni prima che fosse trovato positivo al coronavirus. Alle challenge e telefonate di Steph Curry, che era appena tornato sul parquet per dare una mano ai suoi compagni nella stagione più cupa per i Warriors da qualche lustro a questa parte. Ai dibattiti televisivi su quando, come e perché il circo mediatico della Nba dovrebbe ripartire dopo aver spento la luce a pochi secondi da una banale palla a due.

Il mondo del calcio e l’universo Nba hanno intrapreso due strade diverse per quanto riguarda i pagamenti ai propri tesserati. I giocatori del Sevilla sono finiti in cassa integrazione, ad esempio. È andata meglio ai calciatori della Juve, che si sono visti ridurre gli stipendi delle mensilità di marzo, aprile, maggio e giugno per un valore complessivo di 90 milioni di euro. La Nba per il momento tira invece dritto come se nulla fosse. Il prossimo 15 aprile i cestisti percepiranno infatti lo stipendio completo. C’è però un ma. Le cose potrebbero andare diversamente a partire dalla prossima mensilità di maggio. A tal riguardo, si parla della volontà da parte del Commissioner Adam Silver di avvalersi della clausola inserita nel contratto collettivo, che prevede una riduzione del salario pari all’1,08 per cento per ogni match annullato a causa di specifici avvenimenti straordinari. Ed è facile intuire che una pandemia rientri tra questi.

“Ciao Adam, sono Donald”. Una telefonata alla vecchia maniera, senza il ricorso a videochiamate o altro. Tre quarti d’ora di conversazione per sincerarsi su una questione fondamentale: il ritorno in campo non appena le cose miglioreranno. Entrambi sono consapevoli di quanto lo sport, non soltanto la Nba, rappresenti un valore fondamentale nella cultura americana. Uno sport che ha regalato agli Usa orgoglio e fama eterna. Nel suo piccolo, la principale divisione di basket degli States ha regalato personaggi del calibro di Michael Jordan, Magic Johnson, Kobe Bryant. Incredibili storie di sport, ma prima ancora di vita. La Nba sa bene di non potersi fermare a lungo, sa anche però che la salute viene prima di tutto. Per questo motivo Adam Silver si ostina a incrociare i termini programmazione e impossibile. Da un lato c’è la voglia di tornare in campo, anche rinunciando al pubblico se fosse necessario. Dall’altra parte le immagini delle bare accatastate le une sulle altre ad Hart Island.

A distanza di un mese dalla sospensione della partita tra Thunder e Jazz, a far parlare non sono più le giocate da All Star, l’ennesima tripla doppia di LeBron James o il debutto del predestinato n°2, al secolo Zion Williamson. I protagonisti restano i numeri, ma non quelli messi a referto minuto dopo minuto durante un incontro di pallacanestro. Il lockout auto-imposto, qualora dovesse tramutarsi nell’annullamento della stagione sportiva (play off inclusi), costerebbe secondo Forbes qualcosa come 900 milioni di dollari. Un miliardo scarso. A cui devono aggiungersi i 400 milioni bruciati per colpa di un tweet appassionato del GM dei Rockets a favore dei protestanti di Hong Kong che a fine anno rivendicavano maggiore indipendenza dalla Cina. In un contesto simile, la decurtazione del 20 per cento dello stipendio per il commissioner e gli altri top manager Nba non è che un granello di sabbia della spiaggia di Santa Monica. Chiedere a LeBron o a Steph per una spiegazione pratica.

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