the last dance
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É passato un alieno davanti ai nostri occhi. Riflessioni guardando Last Dance

Sul finire degli anni Ottanta in Italia iniziarono ad essere avvistate delle canotte da basket dai colori sgargianti, dai numeri giganti, evidenti grazie al font con un ombra intorno al contorno. Le canotte riportavano scritte ai più incomprensibili: Los Angeles Lakers, New York Knicks, Boston Celtics. Avevano dei colori splendidi, erano bellissime già al primo sguardo. Ma sul significato che avessero, da dove arrivassero, aleggiava un denso mistero. Non per tutti, ovviamente. C’era sempre in quell’Italia che si scopriva vicina all’America grazie alle reti Finivest, chi aveva il papà giovane e appassionato di sport che sapeva tutto. Di solito erano ragazzini spocchiosi che nella loro cameretta avevano gagliardetti delle squadre NBA ed in qualche caso anche pupazzi mascotte delle stesse. Gliele aveva sempre portate il papà che per lavoro era andato in America. Al punto che mi convinsi che quelli che facevano lavori belli dovevano per forza andare in America. Pian piano la luce si materializzò anche nelle nostre vite meno fortunate fatte di campionato di calcio, ginocchia sbucciate sul campo di sassi e l’ennesimo film di Totò alla tivù. Le reti del Biscione iniziarono a trasmettere il sabato mattina (ma potrebbe essere anche la domenica, ora non ricordo bene) le immagini di quei giganti che giocavano a basket. Ma sinceramente non è che proprio giocassero a basket. Lo avevamo anche noi il basket ed era da sfigati praticarlo, voleva dire che tua mamma non voleva che facessi calcio. Ecco loro non giocano a quel basket, quei giganti danzavano nell’aria, facevano gesti sicuri con le loro manone. Degli ok, dei vai lì, stai tranquillo. E noi col naso per aria li veneravamo come dei. Poi arrivò la moda e qui si aprì un altro capitolo. Chi si poteva permettere una canotta originale delle squadre era veramente una mosca bianca, inoltre indossarla in molte occasioni sarebbe stata una cattiva idea, sicuramente nel mio quartiere dove c’era il rischio di essere riempito di schiaffi alla prima parola inglese, peggio se pronunciata correttamente.

Fu un altro il punto di svolta. Furono delle scarpe, si chiamavano Air Jordan. Mentre magliette, gagliardetti e mascotte erano un lusso esotico e difficilmente reperibile ai tempi del pre-internet, quelle scarpe diventarono subito uno status simbol potente a cui tutti avevano il diretto di anelare. Prodotte in prototipo nel 1984, furono lanciate sul mercato americano un anno dopo, mentre da noi la presenza massiccia fra gli adolescenti fu evidente solo intono al 1990. Ma quelle scarpe rimanevano ancora un simbolo senza un contesto per molti. Fu un evento a spiegare a tutti gli europei chi fosse Michael Jordan: i Giochi Olimpici del 1992 a Barcellona. Con la splendida canzone incisa per l’occasione da Freddy Mercury e Montserrat Caballé a fare da colonna sonora, i Giochi videro la partecipazione di un Dream Team americano (non a caso definito così) composto tra gli altri da Magic Jonson, Larry Bird e naturalmente da lui, sua maestà Michael Jordan. Le partite che li videro affrontare le altre nazionali furono dei combattimenti impari che dimostrarono come il basket americano fosse di tutt’altro livello rispetto a quello del resto del mondo. Ma il Dream Team, nato grazie ad un modifica nelle legislatura dell’NBA, non nacque certo solo per compiacere il pubblico. Gli intenti della lega americana si basavano sulla grande popolarità che ormai aveva raggiunto il basket americano, in particolare in Europa, individuando in esso la possibilità di ampliare un mercato già milionario. Aprire all’Europa significava inoltre poter attrarre giovani talenti provenienti da altri Paesi in modo da rendere ancora più irraggiungibile il campionato americano. Ma c’è un uomo da cui tutte queste riflessioni partirono: Michael Jordan.

Il talento di Jordan, precoce e potentissimo, alimentato da una componente caratteriale di severa abnegazione, cambiò la storia dei Chicago Bulls e anche dell’NBA. Arrivato a Chicago non ancora professionista, Jordan catturò velocemente l’attenzione di tutta la stampa con i suoi numeri straordinari. E fu proprio il grande successo personale a cambiare la filosofia del basket fino ad allora considerato lo sport di squadra americano, ben più del baseball. Jordan era un individualista, il gioco passava quasi esclusivamente dalle sue mani, esaltandolo da un lato, rendendolo immobile per un altro. L’individuo può cambiare le squadre? É sufficiente? Michael Jordan poteva cambiare l’NBA? La risposta é tutta da scoprire. Quello che abbiamo perso noi da ragazzini é lo sviluppo della storia di Michael Jordan e della sua squadra che lo vide entrare nella leggenda. Per questo é stato bello scoprire Last Dance, la docu-serie prodotta da Netflix che racconta come Michael Jordan sia riuscito a cambiare la sua epoca in modo irreversibile. I racconti biografici non sono solo quelli di Jordan però. Partecipano a questa serie tutti i giocatori dei Bulls, oltre alla dirigenza intera. Buona parte del drama di questo racconto arriverà proprio dal rapporto tra personalità molto forti (nel documentario sono disegnati molto bene sia Scott Pippen che Dennis Rodman) e una dirigenza che stava cambiando l’approccio del basket attraverso scelte spregiudicate e avveniristiche. Emerge la figura di Jerry Krause, General Manager molto contestato ma con un’indubbio guizzo per gli affari e il successo. Sullo sfondo si vede crescere una  piccola azienda di scarpe dal nome greco, Nike. La leggenda dei Bulls é una storia che molti di noi hanno interiorizzato prima di conoscerla davvero. Last Dance offe la possibilità di scoprire una pagina importante della cultura sportiva, analizzando anche il nascente rapporto fra business e professionismo che negli anni è diventato una questione di primaria importanza.

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