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Irvine Welsh, tra Trainspotting e gli Hibs

L’Inghilterra è storicamente una nazione inespugnabile. L’ultimo che riuscì a conquistarla fu Guglielmo I, duca di Normandia, nel 1072; dopo di lui molteplici sono stati i tentativi di invadere l’isola e tutti fallimentari. Nei secoli ci hanno provato Filippo II con la sua Invincibile Armada, Napoleone e da ultimo perfino Hitler. Tutti tentativi disastrosi fino alla seconda metà del 1970 quando arrivò nella terra di Albione: l’acidhouse. Dove avevano fallito i più grandi condottieri e generali riuscì la strana coppia “musica techno ed ecstasy”. Una nuova ed incontrollabile ondata di ragazzi e droghe, proveniente da tutta Europa e non solo, invadeva Londra, aprendo di fatto la stagione dei rave. E nella capitale inglese nel 1976 fece la sua apparizione Irvine Welsh.

Tipico rappresentante della working-class d’oltre Manica, come tutti i ragazzini di Leith, distretto popolare di Edimburgo, Welsh si avvicinò al calcio per strada, sognando di diventare un giocatore professionista. I suoi idoli erano George Best e Peter Marinello. Ma questo sogno ben presto si scontrò con la realtà quando il suo allenatore gli fece capire che il suo stile di gioco era lento e goffo e mai sarebbe potuto diventare un’ala di prima fascia. Il sogno svanì, ma la passione rimase. All’inizio il suo amore era diviso tra gli Hearts e gli Hibernian (Hibs). Nulla di più antitetico: i primi rappresentano la classe borghese, i protestanti, lealisti e orangisti; i secondi sono il simbolo del proletariato e degli immigrati, dato che il club fu fondato da emigrati irlandesi (Hibernian è il nome latino con cui i romani chiamavano l’Irlanda). Alla fine però, è facile capire quale sia stata la sua scelta.

Quando ero bambino il mio amore per il calcio era condiviso tra Hearts e Hibernian. Andare a vedere gli Hibs significava andare da mia zia Betty in Burlington Street, a due passi dallo stadio di Easter Road. Quando finivamo di mangiare andavamo tutti insieme allo stadio. Con gli Hearts, l’esperienza è stata molto più insipida: abbiamo preso l’autobus e ci siamo piantati allo stadio Tynecastle. Immagino sia per questo che non mi ci è voluto molto per scegliere gli Hibs

Fin dalla giovane età si radicò in lui l’idea che il calcio non fosse solo un semplice hobby, ma uno stile di vita. Tra gli spalti dell’Easter Road (lo stadio degli Hibs) Welsh più che dal gioco era affascinato dal contesto: il tifo e gli hooligans. Non è un caso che, anche se non l’ha mai dichiarato esplicitamente, per creare il personaggio di Francis Begbie (uno dei protagonisti della sua letteratura e che rappresenta perfettamente il fan violento tipico dell’Hibernian anni Novanta) si sia ispirato al suo amico Derek Dykes, un ragazzino che nella metà degli anni Ottanta fondò la CCS, Capital City Service, una delle firm più violente e temute di tutto il Regno Unito. I loro agguati agli hooligans rivali venivano studiati a tavolino nei pub lungo il Walk nel corso di riunioni a cui partecipava anche lo stesso Irvine. Ma Welsh non entrò mai nel vivo della violenza, lui la osservava e la annotava. Ed è tramite la scrittura che ha portato alla luce il lato oscuro del calcio di quegli anni: un sottobosco senza speranza all’ombra di un Regno Unito in transizione post-Thatcher. A differenza di altri suoi colleghi come David Peace (The Damned United, Red or Dead) o Barry Hines (A Kestrel for a Knave) il calcio per lui è qualcosa di misero e sporco. Non c’è in nessuno dei suoi scritti una scena esplicita di una partita eppure la suo eco emerge ovunque ed è il punto di partenza da cui tutti i personaggi iniziano a creare la propria follia. 

Non ho mai visto tifosi di rugby comportarsi così. Si sono sempre seduti accanto ai propri avversari, bevendo insieme e comportandosi come esseri umani. I tifosi di calcio invece, si arrampicano sulle sbarre e urlano oscenità contro una folla piena di bambini. Ho assistito personalmente a scene del genere.

A Londra, entrato in contatto con una realtà più frizzate e assaporato il mondo delle droghe e del punk, iniziò a scrivere il suo primo romanzo, Trainspotting. La storia è ben nota e narra le grottesche vicissitudini di un gruppo di tossicodipendenti che bazzicano il quartiere di Leith. È un’opera che ricrea le sensazioni che lui stesso provava, andando ad un rave o ad un party in qualche club. Welsh scrive nella stessa lingua parlata dai tossici, dagli hooligans, dalle prostitute, dai papponi, dai gangster, dagli operai e dai portuali che popolavano le strade maleodoranti di Edimburgo durante la sua infanzia. Imparando da Céline, la sua scrittura si popola di argot e slang scozzesi perché più funky rispetto al cockney londinese e perché più vicini alla sua realtà. Come un cantastorie racconta le disavventure dei suoi personaggi attraverso la loro passione calcistica, le droghe, le scene musicali e gli impicci illegali. In particolar modo, in Trainspotting il calcio appare come la causa di tutti i mali dei protagonisti. Riferendosi a Mark Renton, Welsh scrive: “Ipotizzò che i suoi problemi di droga potessero essere collegati alle cattive performance degli Hibs negli anni ’80“.

Per tutta l’opera il calcio rimane associato al peggio che possa mai accadere. L’escalation di eventi drammatici che portano alla morte di Tommy inizia con lo scherzo in cui Renton scambia la videocassetta delle performance sessuali del suo amico con quella dei 100 Great Goals Vol. 1. Attraverso il calcio, insomma, Welsh trova un modo di esprimersi che non ha nulla a che vedere con la gioia e i sani valori di questo sport. È qualcosa di più viscerale in cui non ci sono mezze misure. Sensazioni che faticano ad emergere nella cultura di massa, ma che affiorano sotto pelle nel vissuto quotidiano dei sobborghi delle grandi città e che Welsh con la sua scrittura chimica ha dato, primo fra tutti, una voce.

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