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Marshall Walter Taylor, il primo ciclista afroamericano

Scrivere di Marshall Walter Taylor significa raccontare di un’America in cui lo sport era ancora una forma di segregazione razziale e di come un ragazzo nero di 18 anni sia diventato un’ispirazione per tutti gli atleti di colore e non solo.

Per il suo 12° compleanno Marshall ricevette in regalo una bicicletta, un dono che gli cambiò la vita. Fin da subito mostrò un grandissimo talento, impressionando tutti con i suoi numeri da funambolo. Ed è proprio grazie alle sue acrobazie che Tom Hay, un proprietario di un negozio di biciclette, lo assunse per intrattenere i clienti con i suoi numeri, una sorta di fenomeno da baraccone. Qui le persone iniziarono a chiamarlo Major perché indossava sempre una divisa da maggiore dell’esercito, un’eredità del padre, veterano della guerra civile. Un giorno Louis Munger, ex ciclista professionista e proprietario di un negozio di bici, incuriosito dalle voci che giravano sul giovane Taylor decise di assumerlo nel suo negozio. Per Marshall fu l’incontro della vita. Louis si rese subito conto dell’immenso talento del ragazzo e decise di allenarlo. Non fu una scelta presa a cuor leggero, quella era l’America in cui le persone di colore dovevano entrare e uscire negli empori da retro, alloggiare nelle periferie delle città e vivere una vita di terza classe. Un’ America in cui la pratica sportiva era solo per i bianchi.

Marshall Taylor e Léon Hourlier
Marshall Taylor e Léon Hourlier

Nelle sue prime apparizioni ufficiali da ciclista molti atleti bianchi si ritirarono dalla gara, rifiutandosi di competere con un ragazzo di colore. Tutti gli altri gli mostrarono la loro ostilità con insulti e spinte. Ma nonostante questo clima, nonostante un ambiente profondamente razzista Marshall non si abbatté. Con tenacia e ostinazione proseguì nel suo sogno. Continuò a gareggiare e a vincere finché, quando l’atmosfera si fece incandescente, in accordo con il suo allenatore e manager, decise di trasferirsi in una città più aperta e tollerante, Worcester.

È bastato poco tempo per capire che a Worcester non c’era lo stesso livello di pregiudizio razziale presente a Indianapolis

Qui i due fondarono la Worcester Cycle Manufacturing Company, un’impresa commerciale che aumentò la notorietà di Marshall, permettendogli di accedere a gare ciclistiche internazionali. Così da ciclista dilettante divenne un professionista. In breve, i giornali gli attribuirono svariati soprannomi tra i quali, il più riuscito, era Il ciclone nero. Perfino il presidente Roosevelt divenne un suo fan. All’apice della carriera Marshall stabilì 7 record mondiali. In particolare, stabilì il record di un miglio in 1.41, record superato solo 28 anni dopo. Ma il trionfo avvenne ai campionati mondiali di Montreal nel 1899 quando divenne il secondo atleta di colore a vincere un Mondiale in un sport, prima di lui solo al pugile canadese George Dixon era stato riconosciuto un titolo mondiale. Una vittoria però, che fu macchiata da molte polemiche, dato che i migliori ciclisti della National Cycling Association (NCA) non parteciparono al Mondiale.

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Ma nonostante i successi il clima d’odio non smise. Spesso durante le sue pedalate le persone gli lanciavano secchi di acqua gelata, nei raggi venivano inseriti bastoni e oggetti di vario tipo. I suoi avversari, oltre a ingiuriarlo con parole pesantissime, provavano ad estrometterlo fisicamente dalle corse. Nel 1897 la celebre la zuffa con William Becker lo portò sulla prima pagina del New York Times. Becker al termine di uno sprint perso per pochi centesimi di secondo contro il giovane afroamericano, lo scaraventò a terra, strozzandolo e coprendolo d’insulti. E non solo. Venne addirittura inventata una tattica per contenere le sue volate, una dinamica in cui 4 corridori lo ingabbiavano, impedendogli di aumentare la frequenza di pedalata.

Mi hanno continuamente spinto e tirato gomitate con il solo scopo di farmi stancare

Ma anche nella vita privata le cose non erano migliori. Con i primi guadagni The Major decise di comprare una casa in un quartiere strettamente bianco: la risposta del vicinato fu violenta. Vennero organizzati gruppi di urlatori che, senza sosta, reclamavano l’allontanamento del giovane afroamericano dall’isolato, vennero fatti recapitare all’atleta messaggi minatori e lanciati chiodi contro la sua bici. Per questo Marshall decise di intraprendere una tournée in Europa, ponendo solo una condizione: non si doveva gareggiare la domenica. Una peculiarità del giovane afroamericano, diventato un fervente religioso,  che ispirò anche il cantante Otis Taylor per la sua “He Never Raced On Sunday”. Con solo la sua bici e la Bibbia arrivò in Europa accolto da folle oceaniche. Vinse 42 gare su 57, dopodiché dopo aver guadagnato tra i 75mila e 100mila dollari (pari a 2milioni di dollari di oggi, cifra impressionante per l’epoca), si ritirò.

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Ma il suo ritiro dalle corse professionistiche non fu quello sperato. Entrò in un periodo di profonda crisi a seguito di investimenti sbagliati che lo costrinsero a vendere la sua casa. La vita di Marshall crollò definitivamente con la fine del suo matrimonio e il peggioramento del suo stato di salute. Morì a 53 per un infarto, solo e povero. Venne seppellito in una fossa comune perché la sua famiglia seppe della sua scomparsa molto tempo dopo e non potè reclamare i suoi resti. Ma alla fine il ricordo di Marshall Taylor continuò bocca dopo bocca, anno dopo anno a tramandarsi e quello che ci è arrivato non sono solo i suoi successi, ma soprattutto, la sua determinazione. Un insegnamento su come le cose possono cambiare se solo ci si impegna, se solo lo si vuole.

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