Justin Fashanu
Respect.

Essere Justin Fashanu

Guardiamo una partita e vediamo dei calciatori. Bravi e non bravi, giovani e vecchi, duri e meno duri. Li guardiamo e quando ci esaltiamo per qualche loro giocata o ci incazziamo per qualche loro ciabattata non pensiamo nient’altro che al gioco. Semplice. Guardiamo degli uomini e quello che gli chiediamo, quello che vogliamo è che ci facciano divertire e vincere. Non sempre in quest’ordine. Lo facciamo perché ne abbiamo bisogno. Perché siamo fedeli al nostro ricordo di bambini, tifosi ingenui di una squadra di calcio. Lo facciamo perché abbiamo bisogno di fuggire dalla nostra realtà, fatta di un lavoro che non ci piace, di bollette da pagare e di una vita che non va come vorremmo. Ma dalla realtà non si scappa e il calcio non fa eccezione. Quelli che guardiamo sono uomini che con i loro eccessi rispecchiano le nostre paure e le nostre ambizioni. Soprattutto, le nostre paure. Come quella di essere diverso. Credo che il calcio, come tutti gli sport, viva di stereotipi. Un immaginario collettivo di uomini virili, un po’ misogini e con tanto testosterone. Difficilmente la diversità è ammessa. Per questo trovo straordinario quando qualcuno da una folla di gente si alza e dice: io sono diverso. È per questo che non posso fare a meno di ammirare ed invidiare il coraggio di Robbie Rogers, Thomas Hitzlsperger, ma soprattutto di Justin Fashanu, il primo calciatore a fare coming out e il primo… a subirne le conseguenze. Non voglio qui, raccontare la sua storia. Voglio solo limitarmi, per quanto possibile, a capire il suo valore.

Una persona che si dichiara apertamente omosessuale ha coraggio, ma se è un calciatore ne ha molto di più. E se sei allenato da gente come Brian Clough che durante gli allenamenti ti chiama fottuto finocchio allora meriti massimo rispetto. Sembra quasi ironico, ma negli anni ’80 e ’90 solamente il sospetto che tu fossi gay ti emarginava dalla società civile. La gente isola i diversi, i socialmente scomodi. Justin Fashanu ha sfidato tutti, forse in buona fede o forse per il solo gusto di andare contro. È stato eroico, è stato temerario, è stato ottimista, è stato ingenuo, è stato stupido. Ha perso tutto. Anche la famiglia lo aveva rinnegato, inizio di un vagabondaggio tra l’Inghilterra e gli States, cambiando anno dopo anno squadra. Giocava poche partite e poi, veniva esiliato in un’altra città, con altri tifosi, altri allenatori e compagni. Probabilmente in quella solitudine, tendente alla disperazione, a volte si sarà rimproverato di essersi confessato al mondo. Probabilmente avrà odiato se stesso per essere quello che era, ma ha tenuto duro … fin quando è riuscito a resistere. Devo essere sincero, la vita di Justin Fashanu mi affascina anche per la sua morte. Non che trovi qualcosa di eccitante nella morte, ma per diventare immortale non è importante solo come vivi, ma anche come muori. Justin si è ucciso. Ha forzato il cancello di un garage e si è impiccato. Prima però, ha scritto un biglietto vomitando tutta la sua angoscia. Il biglietto terminava in questo modo: «Sperò che il Gesù che amo mi accolga: troverò la pace, infine». Aveva 37 anni.

È difficile distinguere il bene dal male e molte volte non ha neanche senso. Ci sono dei momenti però, in cui bisogna fare i conti anche con gli altri. Con il fatto che non siamo soli, che ci sono altri giudizi, altri pensieri e altre opinioni da affrontare. Dipendiamo da questo e non possiamo scappare. Quello ci è concesso è di affrontarlo a testa alta, costi quel che costi. Io l’ho imparato da Justin Fashanu.

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