Garra Charrúa

Genesi e cronistoria della Garra Charrúa

11 aprile 1831. Il generale Fructuoso Rivera, dopo appena un anno dalla sua nomina di primo presidente del neonato stato dell’Uruguay, organizza un incontro con gli alleati indigeni dei Charrúas e ‎Guaraníes presso la città di Tacuarembó, lungo le sponde del fiume ‎Salsipuedes. Durante la guerra d’indipendenza le tribù indigene offrirono un grandissimo aiuto al fronte indipendentista combattendo tra le fila di ‎‎José Gervasio Artigas, “El Protector de los Pueblos Libres”, ma ora che i nemici spagnoli e portoghesi sono stati sconfitti, i nativi non servono più a nulla.

Gli ultimi Charrúas
“Gli ultimi Charrúas”, Parque Prado – Montevideo

Agli occhi del neopresidente le popolazioni indigene sono diventate un problema, occupano terre che fanno gola ai suoi amici creoli. Così, eccoli gli indigeni con le famiglie al seguito, tutti riuniti sulle sponde del Salsipuedes, convinti di discutere del loro futuro all’interno del nuovo Stato. Ad un cenno del Presidente, suo nipote, Fructuoso Rivera, inizia la mattanza: 40 indigeni uccisi e 300 fatti prigionieri. I pochi sopravvissuti scapperanno verso il Brasile, trovando accoglienza nelle altre tribù, ma di fatto i Charrúas come comunità si estinguono quel giorno. A memoria di questo popolo, depredato e massacrato, nel 1888 Juan Zorrilla de San Martin scrisse il poema Tabaré, la storia d’amore shakeasperiana tra il cacicco indio, Tabaré, e la nobildonna spagnola Bianca. Un amore che fa rivivere gli usi e i costumi, le tradizioni ed i miti del popolo indigeno, condividendone anche il tragico destino. Ma se ormai dei Charrúas non v’è più traccia, il suo spirito guerriero continua a rivivere nelle gesta degli eredi di quella Nazione che loro hanno contribuito a creare.

Nel 1950 all’indomani del Maracanazo Jules Rimet, commentando il successo della Celeste, la nazionale uruguaiana, affermò: «Nel calcio, giocare bene a volte non basta. Devi anche farlo profondamente, come fa l’Uruguay». Proprio nel calcio, quel passatempo per gli inglesi pazzi, nato verso la fine del IXX secolo, si ritrova l’eredità guerriera dei Charrúas. Quello spirito combattivo che trova nell’ardore dei giocatori della Celeste la sua rivincita sulla storia. Un’eredità spirituale che trova la sintesi nella Garra Charrua.

Nella linguaggio charrua la guar è la mano e, in un senso prettamente letterale, “Garra Charrua” indica il segno indelebile della popolazione precolombiana. Secondo il dizionario della lingua spagnola (DRAE), la “garra” è l’artiglio, ma in un senso più ampio richiama i concetti di sacrificio, convinzione e determinazione. In buona sostanza, la Garra Charrua è quello sforzo psico-fisico che ti porta ad andare oltre i tuoi limiti, a non mollare mai. È richiamato in un certo senso anche nei versi iniziali dell’inno nazionale uruguagio:

Orientales, la Patria o la tumba,
Libertad o con gloria morir

Dove gli orientali sono per l’appunto gli abitanti dell’Uruguay che si insediarono sulla riva orientale del Rio de la Plata al contrario degli argentini che si posizionarono sulla sponda occidentale.

1924, Giochi Olimpici di Parigi. La nazionale uruguaiana è ai più sconosciuta, nessuno conosce chi siano i giocatori e a buon diritto perché la maggior parte di loro non sono professionisti. Tra di loro ci sono verdurieri, postini, lustrascarpe. Il loro capitano, José Nasazzi, si guadagna da vivere tagliando lastre di marmo. Quando arrivano in Francia, stravolti dal lungo viaggio, alcuni emissari yugoslavi vanno a spiarli e loro fingono di essere dei normali dopolavoristi che a mala pena sanno dare due calci a pallone, salvo poi sconfiggerli 7-0. Vincono tutte le partite del torneo e conquistano l’oro. È in questo momento che la Garra si lega alla Celeste. Nel 1935 a Lima durante il Campeonato Sudamericano de Football, l’antesignano della Coppa America, il momento topico: in finale si affrontano le due superpotenze del Sud America, l’Argentina e l’Uruguay. Le relazioni tra le due Federazioni calcistiche sono ai minimi storici dopo le accuse e gli scontri verbali post Mondiali 1930 in cui gli argentini avevano lamentato un clima intimidatorio, fatto di pressioni e minacce. A quella finale del ’35 l’ Uruguay arriva fisicamente a pezzi e i pronostici sono tutti per i gauchos. Ma ecco che la Garra Charrúa emerge tra le fila degli Orientales e la Celeste vince 3-0.

Josè Nasazzi
Josè Nasazzi, “El gran Mariscal”

Ma la Garra Charrúa come tutte le forze ha anche un lato oscuro che si manifesta in un’esasperazione della volontà, dell’andare oltre. Come scrisse Hugh McIlvanney sul The Observer  dopo il fallo killer di José Batista in Scozia-Uruguay dei Mondiale dell’86 appena 53 secondi dopo il calcio di inizio:

“Sono una marmaglia annichilente, dovrebbero dare un premio a chiunque sappia illuminarci sulla loro psiche nazionale. La loro condotta è una mortale combinazione di senso di rivalsa della piccola nazione e machismo latino o è la deplorevole mescolanza di povertà e regressione politica in patria?”

Uno spirito guerriero, demolitore che non si spegne, ma come una fiaccola resta vigile per non perdere di vista l’obiettivo, vincere. Qui però, la vittoria non è fine a se stessa, ma è la volontà di esistere, è la rivincita di un popolo perdente, perché come scrisse Eduardo Galeano:

L’Uruguay non era più un errore. Il calcio aveva strappato questo minuscolo Paese dall’ombra dell’anonimato universale.

About

Zeta è il nostro modo di stare al mondo. Un magazine di sport e cultura; storie e approfondimenti per scoprire cosa si cela dietro le quinte del nostro tempo,

Altre storie
wimbledon inverno
Inverno a Wimbledon, nell’attesa di un nuovo Slam