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Albert Camus, il calcio e la mancanza

Quando nella finale del 2006 Zidane colpì Materazzi tutti capimmo: senza il loro campione la percentuale di vittoria dei francesi era notevolmente calata. E se la maggior parte di noi con finto vittimismo accusava il franco-algerino di slealtà e di poca sportività, soprattutto in un contesto come quello della finale della Coppa del Mondo, pochi videro in quel gesto la consacrazione del pensiero di André Breton che nel 1924 nel Manifesto del Surrealismo scrisse: «l’atto surrealista più semplice consiste, revolver alla mano, nello scendere in strada e sparare a caso, finché si può, sulla folla». Zidane il surrealista, Zidane il Meursault. Già perché quella testata riporta alla mente un altro personaggio che con Zidane non condivide solo le radici algerine, ma anche l’esser surrealista: senza nessun apparente motivo Meursault, un piccolo impiegato dalla vita vuota e conformista, ammazzò un arabo su una spiaggia. E se Zidane vide nel suo gesto la fine della carriera in un senso implicito e non dichiarato di colpevolezza, il Signor M. non provò nessun rimorso, mostrando un’apatia sconcertante. Fortunatamente Meursault non è un personaggio reale, ma è il protagonista del libro Lo Straniero, opera che ha portato alla ribalta internazionale Albert Camus.

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Di Camus si è detto tutto e ancora se ne dirà, ma l’aspetto spesso trascurato o preso sottogamba è la sua viscerale passione per il calcio, costantemente presente nelle sue opere. Il calcio è il grimaldello dell’amicizia tra Rambert e Gonzalès ne La Peste (opera quantomai attuale); Jacques, l’alter ego di Camus ne Il Primo Uomo, si innamora del calcio da ragazzino; Jean-Baptiste Clamence, il brillante avvocato de La Caduta, afferma che:

«Ancora oggi le partite della domenica in uno stadio affollato e il palco di un teatro, che ho amato con una passione senza pari, sono gli unici posti al mondo in cui mi sento innocente.»

Camus amò il calcio fin da quando era bambino e giocava in porta per paura di essere punito dalla nonna. Nonna materna che si occupò dell’educazione del nipote in modo autoritario e severo – arrivò anche a spodestare la figlia vedova per avere la potestà del bambino – e che si imbestialiva quando il nipote tornava con i vestiti e le scarpe rotte. Giocare in porta era un buon compromesso per evitare i rimproveri e le punizioni e continuare con la sua passione. Una passione senza pari che portò il giovane Albert a giocare tra le fila del Racing Universitaire Algérois (RUA), eletto club di Francia nel 1951 e simbolo dell’identità algerina in un periodo politicamente turbolento, che sfocerà nella guerra d’indipendenza nel 1954. Il RUA era la squadra dell’élite algerina e perciò, bersaglio dei non maghrebini e dei maghrebini dei ceti inferiori. Un amore viscerale che lo spinse anche a pensare di intraprendere la carriera da professionista finché all’età di 17 anni tutto cambiò.

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Albert Camus a 7 anni (al centro vestito di nero) nello studio dello zio

Camus si ammalò di tubercolosi. Fu la fine della sua giovinezza e l’inizio di quella che per lui divenne una vita monca. Nel 1930 la tubercolosi era ancora una malattia senza cura e questo segnò per sempre la visione del mondo che Camus ebbe della vita: un delicato equilibrio tra l’Assurdo e la Contraddizione. Si gettò a capofitto nella politica, nell’impegno civile e, soprattutto, nella scrittura. Scrisse per raccontare se stesso ed il mondo, scrisse per ribadire il legame con la sua terra d’origine, messo in discussione dalla fine della guerra e dall’appellativo di Pieds-Noir (letteralmente “Piedi Neri”), i francesi algerini né del tutto francesi perché nati e cresciuti in Algeria né del tutto algerini perché di etnia francese. La scrittura è stata il suo modo di rianimarsi e superare lo shock di un’infanzia finita troppo presto e di un sogno, quello del calciatore, ormai svanito. Ma il calcio fu qualcosa di cui Camus non si libererò mai. Anche quando si trasferì a Parigi, entrando in contatto con l’Accademia ed i circoli dell’intellighenzia francese, il suo primo amore non venne dimenticato. Iniziò a tifare il Racing Club de Paris, ma questo non dev’essere preso come un tradimento verso il suo orgoglio algerino perché come lui stesso disse:

solo perché indossa la stessa maglia del RUA, cerchiata in blu e in bianco. Inoltre il Racing ha un po’ le stesse stranezze del Rua. Suona “scientifico”, come si suol dire, e scientificamente perde le partite che dovrebbe vincere

Ma nessuno vide di buon occhio il suo viscerale fanatismo per il calcio e a Parigi iniziò a sentirsi sempre più solo. Nel 1957 vinse il Nobel, ma finita l’amicizia con Sartre che sembrava indistruttibile, inviso da destra come da sinistra, con la malattia in uno stato avanzato Camus, con i soldi del premio, si ritirò nella quiete di Lourmarin nel Lubéron. Continuò a scrivere, ma quello che lo appassionava erano le vicende che ruotavano intorno alla squadra del posto al punto da sponsorizzarla. Era come se fosse tornato a Belcourt, la sua città d’origine, e ai tempi del RUA, a quando si immaginava calciatore. Filosofo, scrittore critico della natura umana, ma, soprattutto, portiere mancato morì pochi anni dopo in un incidente stradale.

Quel poco che so della morale l’ho appreso sui campi di calcio e le scene di teatro – le mie vere università

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