Gabriele-DAnnunzio sport

Gabriele D’Annunzio e lo sport

Nel 1923 Gabriele D’Annunzio si era ormai ritirato nella villa di Cargnacco, il Vittoriale, ed in quel ritiro volontario si era appassionato al canottaggio, diventando un assiduo frequentatore delle Agonali del Reno, nome da lui ideato per omaggiare le regate sul Lago di Garda. Il Vate si era fatto ambasciatore delle gare di Salò e non perdeva occasione per assistervi. Durante una di queste, invitato a prendere posto nella tribuna d’arrivo in una poltrona rivestita di pelle rossa, accortosi che era l’unica, la prese e la scaraventò nel lago, affermando di non averne bisogno. Applausi scroscianti da tutti i presenti. La figura di D’Annunzio e la sua concezione di sport è tutta in questo gesto: un mix di esaltazione, sbruffonaggine, gentilezza e rispetto.

Labile è il confine fra gioco e sport, fra emulazione ed agonismo. D’Annunzio dondolava insaziabile tra questo confine con la voracità di chi vuole sempre osare. Ma del resto, la vita stessa del Vate, sempre tesa verso tonalità superomistiche, così come le sue opere, è sempre stata legata all’eccesso. Amante della vita lussuosa e sfarzosa ai limiti del fastidio, amava ripetere:

La passione in tutto. Desidero le più lievi cose perdutamente, come le più grandi. Non ho mai tregua.

Una corsa senza tregua verso il tutto, un eccessivo entusiasmo anche per le cose più banali e ciò che può sembrare amore per la vita probabilmente era paura di morire, il terrore del declino. E di quest’iperattività furiosa, alimentata da strisce di polvere bianca, vi è traccia in ogni attimo della sua vita. Così eccolo in volo sui cieli di Vienna in piena guerra mondiale, lanciando manifesti tricolori provocatori, inneggianti alla resa degli austriaci; eccolo, poi, incarnare la delusione di quanti vedevano la vittoria italiana nella Grande Guerra come una vittoria mutilata ed entrare nella città di Fiume, insieme ad un circo di anime folli e dannate. Ed è proprio in quella cittadina che D’Annunzio divenne un re, dando vita alla Reggenza del Carnaro. In quel breve, quanto intenso periodo di governo, Fiume si trasformò in una “città di vita” in cui personaggi di ogni genere confluivano a formare una comunità in cui lo spirito e la ricerca della bellezza trionfavano sul resto. Personaggi come Guido Keller, eroe, aviatore folle che amava camminare scalzo accompagnato da una scimmia o come Shimoi Harukichi, “il samurai di Fiume”, innamorato di Dante e che in Giappone progettò la costruzione di un tempio in onore del Vate, suo comandante e padre spirituale. Personaggi inadeguati per qualsiasi posto nel mondo, ma non per Fiume, non per D’Annunzio. Ed in quell’estasi fiumana, trovò spazio a gran voce anche lo sport. Nella Carta del Carnaro si scriveva di una: “rigenerazione nazionale che andava contemplando il primato della ginnastica, il predominio della forma fisica sulla formazione intellettuale”.  Agire prima di pensare perché non c’è tempo di farlo. L’uomo è un essere limitato e la sua immortalità è figlia del suo agire prima ancora che del suo sapere.

Il rimpianto è il vano pascolo di uno spirito disoccupato. Bisogna soprattutto evitare il rimpianto occupando sempre lo spirito con nuove sensazioni e con nuove immaginazioni.

d'annunzio fiume
Gabriele D’Annunzio insieme ai suoi Arditi dopo l’entrata in Fiume

Allora ecco come lo sport, al pari della guerra e dell’arte, rappresenta per D’Annunzio uno strumento per fortificare il suo spirito e, ad onor del vero, fu il suo primo strumento. Già da bambino tra le strade di Pescara con i suoi amici del quartiere aveva familiarizzato con il gioco, ma quello che lo affascinava era la sfida. Amava raccontare che in quel periodo, quando era ancora a Pescara, aveva attraversato a nuoto il Mar Adriatico, da Pescara fino a Traù in Dalmazia. Difficile credere a qualcosa del genere, ma questo sottolinea quanto il Vate fosse sensibile alle iperboli e spiega perché a 18 anni si trasferì a Roma, da poco divenuta capitale del Regno. Una città, una capitale. Lì c’era tutto quello che aveva sempre cercato: pièce teatrali, mostre, feste, balli, mondanità, giornali. In quella Babele di fine ‘800 D’Annunzio si avvicinò all’equitazione, all’arte della scherma che paragonava alla musica, ai dadi, al biliardo e alle corse di levrieri sulle quali dileguò parte dei suoi guadagni. Fu un periodo fervente per il poeta che proprio in quegli anni si dedicò alla trilogia dei Romanzi della Rosa. Nel 1887, quando era già sposato con Maria Hardouin, duchessa di Gallese e principessa di Montenevoso, e padre di 3 bambini, ricevette direttamente dall’Inghilterra dall’amico Francesco Paolo Tosti un pallone di cuoio. Il calcio era ancora una sport ai più sconosciuto e ricevere quella palla di circa un chilo che valeva quanto un quarto del salario di un operaio italiano lo entusiasmò non poco; ci giocò diverse volte al punto da scheggiarsi due denti per un imprevisto rimbalzo. Nel 1895 si imbarcò su un panfilo a vela per la Grecia, un omaggio al Grand Tour degli aristocratici europei del XVIII e XIX secolo, alla scoperta della religio corporis e religio atletae di origine classica.

Galvanizzato da quell’esperienza, al rientro decise di buttarsi in politica e anche se si fece eleggere tra gli schieramenti di destra ben presto si avvicinò ai socialisti. “Vado verso la vita”, disse. E negli scontri dell’agone politico, celebre fu la diatriba con Pascoli che lo accusava di essersi servito dello sport per attirarsi la simpatia del pubblico. Ma le discussioni tra gli scranni del Parlamento lo stancarono presto, una nuova e folgorante passione lo colse: il volo. Nel romanzo Forse che sì forse che no, i due protagonisti sono due aviatori, un chiaro omaggio ai fratelli Wright; prima di rifugiarsi in Francia per sfuggire ai creditori, volò davanti al re e ad un giovane Kafka che lo descrisse come “piccolo e debole, sgambetta apparentemente timido“. A Parigi con la sua nuova amante, Nathalie de Goloubeff, si dedicò ad esercizi di ginnastica che disegnava su un quaderno di appunti e, soprattutto, iniziò a seguire gli incontri di boxe, sport molto sentito oltralpe. A Lione assistette accanto al Premio Nobel per la Letteratura, Maurice Maeterlink, alla sconfitta del campione italiano dei pesi massimi, Pietro Boine. Nel 1914 insieme alla sua amante assistette a Liverpool ad una famosissima corsa di levrieri, subito dopo tornò in Italia per lo scoppio della guerra. Natalia gli scrisse più volte per avere sostentamenti per mantenere i levrieri. Non ebbe mai risposta ed i cani furono abbattuti.

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9 agosto 1918, D’Annunzio pronto a volare su Vienna

Con lo scoppio della Grande Guerra D’Annunzio si trasferì a Venezia e fu uno dei più accaniti interventisti. In seguito al Volo su Vienna nel 1922 fu nominato “Atleta dell’Anno” dalla Gazzetta dello Sport. Dopo Fiume a sessant’anni il Vate si ritirò a Gardone Riviera che fece diventare una mausoleo alla sua persona e meta di diversi campioni. Nel 1925 Francesco De Pinedo si presentò al Vittoriale subito dopo aver compiuto la trasvolata Italia-Giappone, e nel 1932 Tazio Nuvolari ,dopo la vittoria del Gran Premio di Montecarlo, fu fotografato mentre chiacchierava con il poeta davanti alla Prioria. In quello stesso periodo Mussolini conquistava la scena politica ed ,imparando da D’Annunzio, usò lo sport come leva politica. Si faceva vedere a cavallo o mentre nuotava e lo stesso i suoi luogotenenti, convinto che questo avrebbe aumentato la sua presa del popolo. Ma per D’Annunzio lo sport non era mai stato un mezzo per conquistare le masse, era qualcosa di più intimo. Era un modo per perfezionare il suo corpo, convito che come nei miti classici, l’uomo immortale era un uomo bello, perfetto nella sua fisicità. E le sfide con cui senza sosta si misurava erano il tentativo di affermarsi e di sfuggire alla prova del tempo e alla paura della fine.

Tutto fu ambìto
e tutto fu tentato.
Quel che non fu fatto
io lo sognai;
e tanto era l’ardore
che il sogno eguagliò l’atto.

versi tratti dalla poesia Laus Vitae

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