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Betty Robinson, la donna che visse due volte

Fu durante le Olimpiadi di Amsterdam del 1928 che Betty Robinson a soli 12 anni fece il suo esordio nel mondo dell’atletica, cambiandolo per sempre. Un’ascesa senza uguali che la portò a vincere a soli 16 anni il primo oro olimpico nei 100 metri piani, detenendo il titolo fino al 1932, anno in cui l’aereo in cui viaggiava si schiantò al suolo.

Arrivati sulla scena dell’incidente, i soccorritori videro la carcassa di un biplano e il corpo di un giovane che chiedeva preoccupato notizie di sua cugina. Quando videro Betty in quelle condizioni, pensarono che fosse già morta e la portarono direttamente all’obitorio. Ma quando l’ora della tua morte non è ancora giunta, una vocina suggerisce alle persone che sono intorno di non lasciarti andare e infatti il titolare delle pompe funebri ebbe un intuito provvidenziale, quello di portare la giovane all’ospedale di Oak Forest per un ultimo controllo. La giovane non era affatto morta, si trovava in un coma dal quale uscì dopo ben 7 settimane, contro le aspettative di tutti. Quando i medici parlarono con lei al risveglio furono pessimisti; i danni erano talmente gravi da far supporre che non avrebbe più camminato. Tutti i tabloid parlarono della sua storia; Babe, che aveva raggiunto le vette del successo diventando la donna più veloce del mondo, era immobilizzata in ospedale per un terribile incidente aereo. Il suo passato le tornò violento davanti agli occhi, ricordò quando era una bambina dell’Illinois con una passione per la musica e il teatro che mai avrebbe pensato di diventare un’atleta. Un’adolescente piena di sogni con la testa sempre tra le nuvole che un giorno fu adocchiata dal suo insegnante di biologia. Un mentore appassionato e testardo che con grande costanza iniziò a farla allenare fino a convincerla ad iscriversi ai campionati di atletica di Chicago.

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Pur essendo la sua prima gara, il successo fu immediato. Quella del 30 marzo 1928 fu più che una semplice vittoria. Con l’ammissione di un’ atleta femminile alle Olimpiadi veniva meno quell’ideale così antico, portato avanti da De Coubertin, direttore del CIO, che fomentava idee conservatrici e antifemministe, basate sulla differente fisiologia della donna e sul suo ruolo nella società. Un’Olimpiade del rinnovamento, dunque, una rivoluzione sociale che entrava anche nel mondo dello sport in modo prepotente e decisivo. Sebbene non fosse tra le favorite, Betty esordì nella specialità dei 100 metri guadagnandosi il secondo posto e nella seconda gara raggiunse il record mondiale di velocità con i suoi insuperabili 12 secondi al Soldier Field di Chicago. Ma non solo, pochi anni dopo si piazzò seconda dietro Elta Cartwright, guadagnandosi la convocazione nella prima squadra olimpica femminile.

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Un giorno storico in cui i Giochi furono battezzati per la prima volta dalla fiamma olimpica e da uno sponsor d’eccellenza, la Coca Cola. Un anno ricordato per la bravura di Carla Marangoni, Johnny Weissmuller ma soprattutto per una sconosciuta che riuscì a sbaragliare tutti, la giovanissima Betty Robinson. La portata rivoluzionaria della Robinson può essere compresa solo se si ha ben chiaro il ruolo della donna in quel periodo. Un tipo di femminilità dominante che voleva la “donna come regina della casa”, mamma tenera e moglie sempre sorridente dedita alla cura del marito e all’educazione dei bambini. In quel mondo così perfetto, fatto di manicaretti e chiome bionde, non c’era posto per rivendicazioni politiche, ambizioni professionali e forme di indipendenza personale. Certo in quel periodo qualcosa stava cambiando tanto da chiamare quegli anni venti così strani, diremmo oggi di transizione, i roaring Twenties (i ruggenti anni venti, ndr.). E Betty può essere ricordata a pieno titolo come parte di quel grande social changing che ebbe risonanza nel mondo intero.

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Forse al momento non si rese conto del passaggio epocale di cui era protagonista e quando con addosso la bandiera americana sentì tuonare l’inno americano, Betty iniziò a piangere “like a baby”, come raccontò successivamente. Emozionata, incredula, orgogliosa del suo lavoro, divenne una vera e propria icona dello sport. Una vittoria che riuscì a ripagare i pessimi risultati della categoria maschile che aveva fatto registrare il punteggio più basso della sua storia. Tornando a casa Betty fu acclamata con ben due parate, i suoi concittadini le regalarono un orologio di diamanti e la scuola volle renderle onore con una coppa d’argento. Babe accumulò successi su successi, raggiungendo record mai siglati fino a diventare la rappresentante ad honorem dell’Università del Northwestern. Un’escalation di vittorie che cambiarono la sua routine, ma non la sua indole di ragazza dell’Illinois semplice e spensierata, fino a quando quel terribile incidente non le cambiò completamente la vita.

Simbolo del cambiamento sociale, emblema di un risveglio tutto al femminile, Betty sul suo letto di ospedale non riuscì ad accettare la sua situazione. La sua indole di donna caparbia e vincente non le consentì di abbandonarsi all’autocommiserazione e lentamente iniziò a prendere coscienza che la volontà può fare miracoli. Così visse un nuovo inizio. Senza limiti di alcun tipo e dopo circa due anni di dura riabilitazione trascorsi tra la carrozzina e i terapisti, iniziò a vedere la luce. Pur non potendo gareggiare nei 100 metri, Betty si presentò alle Olimpiadi del 1936. Sapeva di avere conservato un problema grave alle ginocchia che le impediva di fare lo scatto iniziale e di avere dei sostegni di metallo che le creavano un dislivello tra le gambe. Ma nonostante questo partecipò alla staffetta a squadre e vinse la medaglia d’oro. Babe vinse la battaglia della vita, aveva combattuto il suo male, le sue paure più grandi e i suoi limiti, vincendo su tutti e tutto. Betty Robinson divenne l’emblema della forza delle donne e anche dopo essersi ritirata continuò a lavorare come motivational speaker, giudice di gara e cronometrista. Una donna che insegna molto ancora oggi, soprattutto a chi cade e non riesce a rialzarsi, a chi si ferma ai primi fallimenti e a chi si lascia convincere di non potercela fare.

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