non voglio cambiare pianeta
Credits: Daniele Dalledonne https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Jovanotti_%22Lorenzo_nei_Palasport%22.jpg

Non voglio cambiare pianeta

Ivan Illich nel suo Elogio della bicicletta, poneva come simbolo di modernità proprio le due ruote, mezzo che a suo avviso caratterizzava la libertà di scelta dell’individuo sulla tecnologia. Potrei andare in macchina, ma scelgo la bici come strumento di confronto tra me e il mondo. Non deve essere certamente sfuggita questa riflessione a Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, mentre compiva la sua avventura da cui é stato tratto il docufilm Non voglio cambiar pianeta. Dopo le folle oceaniche riversatesi sulle spiagge italiane per il Jova Beach tour, accolto con critiche sindacali e ambientaliste in molti casi forzate, l’uomo Cherubini ha sentito il bisogno di staccare completamente la spina da quel vissuto pieno per concentrarsi sul vuotoÉ lui stesso ad eseguire con la complicità del montaggio questo switch fra pieno e vuoto, mostrando i due momenti differenti dell’artista. Concetti molto interessanti e che avranno sicuramente toccato molti italiani che proprio mentre il docufilm veniva messo in onda, si trovavano reclusi a causa del Covid-19. Strano sincronismo quello della vita: mentre in Italia ci si chiudeva a casa fino a data da definire, gli italiani si trovavano su RaiPlay il docufilm di un loro connazionale che aveva appena sfidato se stesso lungo le strade del Cile. Per molte ragioni il docufilm di Jovanotti assume quasi un valore metaforico: l’artista che si “scomoda” dalla sua posizione di rockstar (anche se é più vicino al piccolo imprenditore di provincia che a Keith Richard) e intraprende delle “missioni” che costano fatica e volontà.

Una figura quell’artista viaggiatore, esploratore ormai destinata alla modernità ma non più alla contemporaneità. A Baudelaire che si imbarca verso le Indie alla ricerca del navigare esistenziale, rispondono ventenni tatuati che si vantano di aver comprato macchine costose grazie al loro pezzo azzeccato. Niente di male per carità a comprarsi macchine costose con un ritornello, ma abbiamo ragione di credere che l’artista sia colui che modella la realtà a lui vicina, trovando spunti e riflessioni stimolanti, una Weltanschauung (concezione del mondo ndr.). Ci piace per questo vedere Lorenzo Cherubini sulla bicicletta mentre attraversa il Cile, ci piace un uomo che non si é seduto, anzi ha usato la libertà che la sua fortunata carriera gli ha generosamente offerto per compiere imprese che accrescano l’uomo prima che l’artista. Una libertà da e non solo diUn’impresa quella di Jovanotti che fa bene a tutti noi che la osserviamo dal divano perché ci dimostra che l’uomo nasce libero anche se non ha letto Rousseau e che la Terra é grande, infinita, ricca di incontri e verità molto più di quanto Facebook voglia farci credere.  I primi minuti del docufilm dimostrano subito l’approccio con cui Jovanotti ha pensato questa esperienza. Non c’è canovaccio se non per le indicazioni geografiche di massima, non c’è esaltazione della rockstar. C’è l’umiltà del viaggiatore e dell’uomo che si apre con rispetto alla natura.

E il rapporto con la natura ovviamente è di fondamentale importanza. Il mezzo scelto da Jovanotti non è casuale, la bicicletta. Nel saggio citato in precedenza di Ivan Illich la bicicletta si dimostra moderna anche rispetto al guadagno di energia, infatti, ai ciclisti sono corrisposte ad una maggiore energia consumata benefici sia fisici che economici. Ma non solo, Illich fa notare come anche lo spazio intorno a noi cambia perché la bicicletta é il mezzo che non invade la natura, ma la può seguire armonicamente. Certo per un uomo abituato a generare consensi e fatturato, a sentirsi “si” ogni volta che vuole, mettersi a pedalare sulle strade isolate del Sudamerica vuol dire scegliere di ritrovare quasi in via monacale un rapporto fra la propria persona e il suo essere nel mondo, anche concepire spazi differenti.

Non è una passeggiata di piacere percorrere 4000 chilometri sulla Panamericana, non vuol dire andare in un villaggio hippy a Goa per trovare se stessi. Stare sulla bicicletta più di 200 ore sotto il sole e dormire in tenda di fianco all’Oceano vuol dire ingaggiare un corpo a corpo con il mondo sconosciuto della natura. Non mancano gli imprevisti infatti ed é molto interessante che Jovanotti non li nasconda e non li enfatizzi stile reality (Al nostro amico si é rotta un unghia, riuscirà a sopravvivere?).  Semplicemente tutti i momenti del viaggio sono vissuti per quello che rappresentano: tappe di un percorso che, per quanto finito, si apre all’infinità delle possibilità. La bicicletta é un mezzo di avvicinamento lento che permettere di attraversare la natura, ma non di fenderla, non di stravolgerla. Il passo lento delle ruote, soprattutto in salita e soprattutto con il carico necessario ad affrontare un viaggio simile, é la perfetta velocità di viaggio per poter incontrare e non scontrarsi con il mondo che vive intorno a noi. Jovanotti parla di sé, della sua famiglia, della sua figura di figlio e di parte, si commuove e si chiede come sarà raccontare a sua figlia e sua moglie i luoghi in cui é stato.  Ma a chi racconta Jovanotti? Racconta a noi? No, Jovanotti ci usa come specchio  cercando di evitare la telecronaca di ciò che accade, raccontando a se stesso quello che vede e sente. Un se stesso che é lo specchio necessario perché il pensiero non sia frustrazione ma condivisione.

Ma ancora una volta sono i chilometri a scandire i pensieri.  La meta della costa cilena non é casuale con le sue quattro fasce climatiche che allungate nei suoi 4300 chilometri aiutano il pensiero a sorprendersi. È la metà ideale di molti viaggiatori che ne Cile vedono la possibilità di attraversare un mondo in miniatura.  Ed in effetti i paesaggi che si estendono di fianco alla bicicletta di Jovanotti producono su noi osservatori un effetto di spaesamento emozionate. Probabilmente non sono gli sforzi di un uomo a cambiarlo, ma di sicuro i cambiamenti di stato (padre, viaggiatore, star) hanno permesso di diventare a Lorenzo Cherubini un uomo con una visione del mondo più ricca di molti suoi colleghi. Ad accompagnare Jovanotti le poesie di Neruda che fermano in alcuni momenti la narrazione in una splendida fotografia tra territorio e vita spirituale. Non sbaglia Jovanotti nel dire che leggere Neruda in Cile é altra cosa da leggerlo a casa propria perché la poesia come insegna Whitehead é sempre poesia “degli occhi che guardano un paesaggio” e quindi non ascrivibile solo al pensiero. Jovanotti non eccede in questo racconto in inutili proclami o riflessioni esistenziali, anzi si potrebbe dire che ne ha paura in qualche occasione e si apprezza questa onestà anche quando a volte deve girare lo sguardo altrove, come nel caso della situazione politica cilena che forse avrebbe meritato una riflessione più chiara.

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