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Calvino, lo sport e le Olimpiadi del ’52

Quando nel 1952 Italo Calvino venne mandato dalla sezione piemontese dell’Unità ad Helsinki per seguire le Olimpiadi, tutti rimasero spiazzati. Calvino era appena 29enne e aveva da poco pubblicato il suo terzo romanzo, Il visconte dimezzato, e a parte un pezzo del 1948, Una partita che non ho visto, riferita alla partita Italia-Inghilterra in cui raccontò solo ciò accadeva fuori dallo stadio, non c’era traccia di un suo interesse per lo sport. Eppure il giornale scelse lui come inviato speciale. Le ragioni sono misteriose ancora oggi e alimentano diverse tesi. Alcuni affermano che la scelta venne direttamente dal segretario del PCI, Palmiro Togliatti, altri che l’idea fu di Gian Carlo Pajetta, alto dirigente del partito, altri ancora che fu il direttore dell’Unità di Milano, Davide Lajolo, amante del binomio sport e letteratura, a spingere Calvino alle Olimpiadi come aveva fatto con Alfonso Gatto e il Giro d’Italia, riscuotendo enorme successo. Ma, al di là delle motivazioni del giornale, la vera domanda è: Calvino perché accettò? La risposta ce la dà lui stesso:

Scrivo perché non ero dotato per il commercio, non ero dotato per lo sport. Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non è il desiderio di insegnare ad altri ciò che so o credo di sapere che mi mette voglia di scrivere, ma al contrario la coscienza dolorosa della mia incompetenza

Calvino accettò per conoscere un mondo a lui sconosciuto. Sfidò se stesso, si mise alla prova. Così Helsinki e, come era prevedibile, i suoi articoli si concentrarono più sul contesto che sui risultati sportivi. Uno sguardo vergine per lo sport, ma esperto per quello che gli interessava davvero: i personaggi, le peculiarità di un evento di rilevanza mondiale. Lo si capì già dal suo primo pezzo sulla cerimonia d’apertura: “L’impermeabile, si capisce, lo portiamo noi comuni mortali, perché la pioggia non riesce ad offuscare la noia dominante e caratteristica di questo clima olimpico, costituito dai colori delle tute di allenamento ancor più vistose delle giacche della divisa da passeggio degli atleti e dei dirigenti delle varie squadre: gli italiani, col loro splendente doppiopetto, coi bottoni d’oro, hanno tutti un’aria da principe azzurro: emergono con loro, in vistosità, i messicani, con le loro giacche rosso-vino, mentre invece gli inglesi portano una giacchetta nera assai modesta“.

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E poi un intero articolo sull’invasione di campo di una ragazza che aveva fatto scalpore. Calvino rivelò che si trattava di una giovane di Stoccarda, Barbara Rontrau Pleyer, appartenente a una setta religiosa protestante, decisa a portare un messaggio di pace nel pieno dei Giochi della guerra fredda. Scrisse Calvino: “Certo quel quadretto d’una bionda e angelica personificazione della pace, trascinata via per le braccia da signori in cilindro e redingote, s’è mosso davanti ai nostri occhi come balzato fuori da una vignetta satirica. Sarebbe facile insistere sull’allegoria: troppo facile, perché appunto sono questi simboli abusati che non rispondono più alla nostra coscienza. La pace non riusciamo più a personificarla in una mistica fanciulla biancovestita: se vogliamo darle una effige, sia quella di tutta la forte gioventù di ogni razza e nazione riunita ora a Helsinki, col cuore puro e i piedi ben piantati sulla terra“.

E ancora, il ritratto del tedoforo Paavo Nurmi, ex campione finlandese, ritratto come se fosse quasi stanco nel rimettersi i panni dell’atleta: “Dell’aureola mitica attorno al suo nome pare non si curi, quasi il grande corridore delle statue e delle rievocazioni sia un qualcosa d’ormai scisso dalla sua persona, un fantasma immutabilmente giovane che continua la sua corsa mentre lui s’è fermato. Nurmi non si cura più nemmeno del suo sport, non è diventato, come tanti altri ex campioni, un organizzatore, un tecnico o un allenatore: vive al di fuori degli ambienti olimpici, e quando vi ritorna è proprio perché non può rifiutarsi di commemorare se stesso“.

E poi, fu il turno del ceco Zatopek, dell’italiano Giuseppe Dordoni e di tanti altri a formare un puzzle di facce, disegnate dalla sua curiosa penna, fino alla foto che rese indimenticabili quelle Olimpiadi. Fu scattata quasi per caso da Ralph Crane, celebre fotografo della rivista LIFE, e fu uno schiaffo a qualsiasi propaganda sciovinista americana e russa. Atleti americani e sovietici seduti in atteggiamento cordiale, insieme, su una panchina sotto le betulle. Alla fine non è questo il senso dello sport? Il 30 luglio Calvino scrisse, consapevole di raccontare l’evento ai lettori dell’organo del Pci: “Cantate pure con contententezza il vostro inno ogni volta che le stelle e le strisce salgono sul pennone: nessuno può negare che il vostro sia un grande popolo, soprattutto quando i millesangui negri e bianchi che fecondano la vostra terra sono in grado, come qui, di farsi valere sullo stesso piano. Ma, vi prego, riflettete un momento: voi sapete come nascono i vostri campioni, i vostri grandi specialisti, saltatori con l’asta, podisti, discoboli; sapete che sono beniamini dei ‘colleges’ universitari dove essi vengono mantenuti, studenti spesso solo di nome, per dare lustro sportivo all’Università e servire d’attrazione pubblicitaria, e dove non hanno altro da fare che allenarsi, migliorare la propria tecnica e il proprio stile, come raffinati virtuosi, frutti di quel compromesso tra cultura, accademia sportiva, industria, che sono gli istituti d’istruzione americani“. E nel suo reportage non poteva mancare un ritratto della città baltica: “Una città che sa di pesce e di prato, cresciuta com’è in mezzo ai boschi e all’acqua“. Una piccola anticipazione del capolavoro che scriverà anni dopo, Le città invisibili

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Atleti americani e russi cancellano per un momento la Guerra Fredda

Sebbene quegli articoli, letti ora, ci restituiscono un ritratto quasi etnografico di quelle Olimpiadi unico al mondo, Calvino descrisse la sua esperienza da giornalista sportivo con una certa delusione. Raccontò delle giornate ad Helsinki in compagnia di Paolo Morelli, inviato de La Stampa. A detta dello scrittore, Morelli era miope: “io gli descrivevo le scene e le situazioni che accadevano. Guarda qui, guarda là. E poi scoprivo il giorno dopo, leggendo La Stampa, che era riuscito a raccontare meglio di me quello che era accaduto“. E con questo rammarico Calvino tornò in Italia, deciso ad abbandonare per sempre la professione del giornalista per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura.

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