Beitar Jerusalem

Beitar Gerusalemme: storia di una squadra divisa tra amore per il calcio e odio tra popoli

La squadra da sempre ospita una frangia di tifosi chiamata La Familia apertamente razzista e islamofobica: dopo anni turbolenti, la proprietà sta per passare in mano a un gruppo arabo che cambierà per sempre la storia di questa squadra

Ogni società sportiva ha i suoi scheletri nell’armadio: chi ha avuto problemi con la giustizia sportiva, chi ha cercato di falsificare documenti per rendere i calciatori comunitari, chi ha tentato di comprare o vendere partite. E poi c’è chi, molto spesso, si trova a dover affrontare problemi legati al comportamento delle proprie tifoserie, solitamente spinte da ideologie politiche discutibili e che vanno contro ogni sorta di senso di valore sportivo. Ma ad un certo punto capita qualcosa destinata a cambiare per sempre il corso degli eventi.

È il caso del Beitar Gerusalemme, formazione militante nel campionato israeliano che ospita sugli spalti del Teddy Stadium una tifoseria che definire agitata è un eufemismo. Si tratta de “La Familia”, gruppo di tifosi vicino all’ideologia trasmessa dal Likud, schieramento israeliano di destra, nazionalista e liberale, con al suo interno spinte marcatamente razziste e anti-arabe, in cui si riconoscono tutti gli appartenenti del gruppo ultras.

Una tifoseria che fonda i suoi principi sulla purezza della squadra di Gerusalemme che per decenni ha potuto “vantare” l’assenza di giocatori arabi e di fede musulmana. Per chi segue il mondo del calcio spagnolo, è un concetto simile alla filosofia sposata dall’Athletic Bilbao che nella sua rosa ha sempre orgogliosamente tesserato solo giocatori baschi, ad eccezione del terzino francese Bixente Lizarazu, accettato perché, anche se nato lontano dagli Euskadi, è originario di quelle parti e quindi considerato arruolabile. Ma se dovessimo mettere a confronto le tifoserie di Bilbao e Beitar, indubbiamente, non ci sarebbe alcun paragone tra le due: quella dell’Athletic è passionale, calda, orgogliosa, ma mai violenta e tantomeno razzista. Quella del Beitar, invece, razzista lo è e lo manifesta con orgoglio, apertamente, con cori e slogan che presentano gli ultras de La Familia come uno dei gruppi più razzisti del panorama del calcio mondiale. 

Una tifoseria che fonda i suoi principi sulla purezza della squadra di Gerusalemme che per decenni ha potuto “vantare” l’assenza di giocatori arabi e di fede musulmana

Il caso più clamoroso della storia recente del Beitar è avvenuto nel 2013. Tutto ha inizio con un’amichevole della squadra israeliana in Cecenia, invitata a giocare contro il Terek Grozny, formazione di proprietà del presidente della Repubblica Cecena, Ramzan Kadyrov, un personaggio che definire discutibile è quasi un complimento (insediato da Vladimir Putin in persona nel 2007 con il solo obiettivo di reprimere ogni sorta di rivolte locali, accusato di utilizzare metodi antidemocratici nel Paese, di avere un esercito personale e di aver aperto campi di concentramento riservati agli omosessuali). La partita finisce 0-0 ma non è il risultato (deludente) a lasciare strascichi. Quello che fa scattare la scintilla è l’acquisto di due calciatori ceceni, Gabriel Kadiev e Zaur Sadayev, di religione musulmana, i primi della storia del Beitar. Una scelta, quella dell’allora presidente del club, Arkady Gaydamak, paperone russo-israeliano con trascorsi non certo limpidi, dettata dalla volontà di mantenere buoni rapporti con Kadyrov che non viene assolutamente tollerata da La Familia. La frangia più estrema vive come un insulto l’ingaggio di due giocatori di fede musulmana e per manifestare il proprio disappunto dà fuoco alla sede del club. Non certo una buona accoglienza per i due malcapitati ceceni che ancora non sanno cosa i loro “tifosi” hanno in mente di fare.

la familia beitar gerusalemme

Alle sedute di allenamento vengono attesi dagli ultras pronti a sputargli in faccia e a minacciarli tanto da costringere il club a fornir loro delle guardie del corpo per garantirne l’incolumità. Una situazione che degenera totalmente quando uno dei due, l’attaccante Sadayev, segna il suo primo (e unico) gol in campionato. La reazione del Teddy Stadium è di gioia e festa tranne che per la fetta occupata dai membri de La Familia che di fronte alla rete risponde con l’abbandono degli spalti. Una scena del genere mai si era vista in uno stadio, un gesto che va contro ogni principio sportivo e di amore per i colori della propria squadra.

I due ceceni qualche mese dopo lasceranno Gerusalemme e – senza grandi rimpianti – diranno addio al Beitar e ai suoi tifosi. Ma perché vi abbiamo raccontato questa storia di – ahinoi – ordinaria follia pallonara? Perché pare che, sulla scia degli Accordi di Abramo, la storia del club stia per cambiare per sempre. Uno sceicco di Abu Dhabi, musulmano, è intenzionato ad acquistare il club. Fatto curioso che non sappiamo ancora che conseguenze possa avere.

accordi di abramo
Gli Accordi di Abramo

L’arrivo degli sceicchi di Abu Dhabi porterà nuova liquidità e un appeal maggiore per il club che non conquista un titolo nazionale da più di 10 anni e che in Europa non ha mai lasciato il segno. Ma oltre ai risultati sportivi opererà un lavoro di pulizia dell’immagine del club così da espellere qualsiasi movimento anti-arabo presente nelle frange più calde del tifo. Un obiettivo che si era posto anche il precedente proprietario, l’imprenditore hi-tech Moshe Hogeg, alla guida del club dalla fine del 2018 e colui che ha intavolato la trattativa con l’uomo di affari degli Emirati Arabi (ancora ignoto) per dare un segnale netto in direzione di una pace in Medio Oriente.

Moshe Hogeg
Moshe Hogeg

Negli anni, il peso de La Familia all’interno del club è cresciuto costantemente grazie al sostegno del centrodestra israeliano che ne ha sostenuto l’ascesa. Inesorabilmente, tutto il resto del pubblico frequentante il Teddy Kollek Stadium ha man mano abbandonato le tribune, incapace di riconoscersi in una società fondata sui valori dell’odio e dell’ideologia della razza pura. Anche Trump ha avuto un ruolo in questa storia, oltre alle questioni legate ai rapporti tra Israele e mondo arabo. È la primavera del 2018 quando il presidente dei Beitar pubblica un comunicato in cui si afferma che il nome del club è cambiato ed è diventato “Beitar Trump Jerusalem”, una mossa che è anche conseguenza della presa di posizione del presidente degli USA riguardo allo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, erigendo la città a vera capitale di Israele agli occhi americani. Insomma, un altro capitolo “bizzarro” di questa storia che prosegue con il passaggio di proprietà del Beitar in mani arabe. Evento francamente difficile da contestualizzare in una società sportiva in cui in passato, oltre a quanto già raccontato, i gruppi de La Familia manifestarono contro il giocatore nigeriano Ali Mohamed, reo di aver stampato sulla maglia il suo nome, Mohamed (Maometto). Un fatto impossibile da mandare giù per il tifo più caldo del Beitar che ha colto la palla al balzo per rinfuocare la polemica.

Beitar Jerusalem

Adesso, con i cambi di proprietà e il nuovo avvento del primo proprietario arabo della storia del club, sembra che il vento stia per cambiare. Si attende il tesseramento del primo calciatore arabo della storia e – sembra quasi scontato – questo avverrà presto.

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