Ronald Antonio O’Sullivan, The Rocket
Credits: DerHexer https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Rolf_Kalb_and_Ronnie_O%E2%80%99Sullivan_at_German_Masters_Snooker_Final_(DerHexer)_2012-02-05_04.jpg

Ronald Antonio O’Sullivan, The Rocket

Il Predestinato. Non c’è termine migliore per descrivere la carriera sportiva, tuttora in corso, di Ronald. Certo il nome avrebbe potuto già darci qualche indizio sull’appartenenza all’Olimpo sportivo: Ronald Antonio O’Sullivan, mezzo sangue italiano nato in un paesino sperduto nei sobborghi di Londra, soprannominato The Rocket, il razzo.

Lo sport in questione è un complicato rompicapo che si dipana su un tappeto verde e che coinvolge 21 palline colorate, di cui 15 rosse, e una palla bianca denominata cue ball, la vera protagonista. Nel nome, snooker, traducibile come “ostacolare”, lo scopo: impedire all’avversario di imbucare tutte le palline nell’ordine previsto, possibilmente impallando la cue ball, la palla con cui si può creare il gioco.

Lo snooker, nacque in India a fine Ottocento, come passatempo preferito dell’esercito coloniale. La regola è semplice (si fa per dire): dopo ogni palla rossa imbucata, dal valore di 1 punto, è necessario imbucarne una di diverso colore; queste palle diversamente colorate (nero, rosa, blu,
marrone, verde, giallo dal valore in ordine decrescente rispettivamente da 7 a 2) hanno posizioni fisse e quando vengono imbucate sono rimesse nelle loro posizioni iniziali; solo quando tutte le rosse sono terminate allora le altre colorate possono essere definitivamente imbucate. Sono previste delle penalità, come quando non si riesce a colpire una palla rossa a causa proprio di uno snooker, e vince, naturalmente, chi segna di più. Sul tavolo ci sono 147 punti, ottenibili esclusivamente imbucando ogni qual volta se ne ha l’occasione, la palla nera, che vale ben 7 punti.

Questa piccola premessa è assolutamente necessaria per capire il talento di Ronald, conosciuto nel mondo come Ronnie, in pratica il più grande “imbucatore” della storia. È il recordman dei “centoni”, ossia la segnatura di almeno 100 punti consecutivi in una partita, ma soprattutto è il re indiscusso dei 147, ossia del massimo punteggio possibile, che ha un nome tutto suo, “Maximum Break”.

Per avere un’idea della difficoltà di questa giocata, nella storia di questo sport sono stati fatti ad oggi 157 Maximum Break , di questi 15, in pratica il 10%, dal solo Ronnie. Il nome The Rocket se lo è guadagnato certamente per il suo stile di gioco, ma anche grazie ad una performance strabiliante che risale al 1997 quando, durante una partita del mondiale contro lo sventurato Mick Price, segnò 147 punti in 5 minuti e 8 secondi di gioco.

Ma per Ronnie non tutto è stato così semplice. Nei primi anni ‘90, all’età di 15 anni, comincia a vincere molte partite fino ad arrivare a qualificarsi per il mondiale nel 1992. I genitori, proprietari di un sexy shop a Soho, non sono di particolare aiuto: sempre nel 1992 il padre è incarcerato per
omicidio (uscirà dopo vent’anni), avendo ucciso una persona durante una rissa tra ubriachi in un pub. Nel 1993 Ronnie vince il suo primo titolo major (alla stregua di un titolo slam per Tennis e Golf), gli UK Championship, e poco dopo, nel 1996, la madre è arrestata per evasione fiscale, lasciando il poco più che ventenne O’Sullivan, fresco papà, come tutore della sorellina di 8 anni. Ronnie non reagisce bene: nel mondiale di quell’anno aggredisce un addetto stampa che gli aveva chiesto di far uscire un uomo del suo team poiché non aveva il necessario dress code previsto dal regolamento. La federazione lo squalifica per 2 anni, lui torna, vince un altro major e poi è forzato ad un secondo riposo essendo stato pizzicato, dai test del “dopo-partita”, a fare uso di droghe leggere. Ma Ronnie ha talento e anche tenacia. Al suo ritorno nel 2001 vince il primo di una lunga serie di titoli mondiali e nei primi anni 2000 è praticamente imbattibile.

Nel 2006 durante un match che stava dominando nettamente si ritira dichiarando all’arbitro che “devo andarmene, non sono nel giusto stato d’animo”.

Poi arrivano altri momenti difficili in cui deve affrontare la depressione che combatte in modo poco originale con la tossicodipendenza. Nel 2006 durante un match che stava dominando nettamente si ritira dichiarando all’arbitro che “devo andarmene, non sono nel giusto stato d’animo“. Comincia così un percorso di riabilitazione che lo porterà dai Narcotici Anonimi e dove incontrerà la sua seconda compagna con cui avrà altri 2 figli.

Poi ritorna. Vince altri 3 mondiali, è il numero 1 del mondo. Si ferma di nuovo. Decide di prendersi una pausa e si fa assumere in un allevamento di maiali. Poi torna, ma stavolta non vince. Sulla sua strada c’è Mark Selby, il mago dello snooker. Quel tipo di giocatore estremamente tattico che gioca in difesa, non sbaglia mai, calcola ogni traiettoria e soprattutto ha una pazienza infinita. Tutto il contrario di The Rocket che vorrebbe spazzarti via in qualche minuto, che vorrebbe spaccare la pallina, che quasi non si interrompe tra una giocata e l’altra come se pensare fosse superfluo. Come se il suo cervello avesse già calcolato tutto senza avvisare il corpo. Ma dall’altra parte c’è uno stillicidio anestetizzante in grado di smorzare tutta la sua irruenza. Sono partite emozionanti che Ronnie domina ma che Mark recupera e alla fine vince quasi sempre all’ultimo frame, al fotofinish in un crescendo di dominio con O’Sullivan impotente, spuntato nelle sue armi migliori. Selby come un esperto ragno imbriglia The Rocket nella sua fitta tela, costringendolo a fronteggiare giochi difensivi molto dispendiosi a livello mentale che certamente non si confanno al suo gioco spumeggiante ed istintivo.

Ronnie non vuole soffrire, ha già sofferto troppo nella vita. Non vuole perdere tempo, non può aspettare. E così cade, svuotato dell’energia, con la mente cotta e le idee confuse. Inizia così un periodo difficile in cui The Rocket vince comunque molti titoli, ad oggi detiene il record di titoli major (20), ma non riesce a ripetersi al mondiale, spesso fermato dall’antagonista Selby.

Tutto questo fino allo scorso 13 agosto. Quel giorno Ronnie decide di non accettare il gioco dell’avversario ma di fare il suo. In una semifinale memorabile, conclusasi all’ultimo frame, O’Sullivan rifiuta di difendersi ogni volta che è messo in posizione di snooker da Selby. Commette fallo di proposito, perde volutamente il frame, scaglia la pallina a caso. E poi appena ha l’occasione segna punti su punti senza far toccare palla all’avversario per diversi minuti. Selby è preso in contropiede. A fine partita accuserà Ronnie di comportamento irrispettoso. È frustrato. Fino a quel momento Ronnie era sempre cascato nella rete. Stavolta il ragno è arrivato ma non c’era nessun prigioniero, o meglio c’era un fantoccio. Nell’ultimo decisivo frame della partita, infatti, Selby ha ricominciato il gioco difensivo aspettandosi un comportamento impaziente di O’Sullivan che invece si è difeso come mai aveva fatto quella giornata costringendo Selby all’errore fatale che gli è costato la partita.

Il giorno dopo Ronald ha vinto il suo sesto mondiale, a 45 anni, strapazzando in finale Kyren Wilson, giovane promessa cresciuta con in camera il suo poster. Tutto il mondo composto e formale dell’amatissimo tappeto verde britannico, il mondo di uno sport che si gioca in sale scure, con la sola luce che illumina il tavolo, dove il giocatore deve rispettare un rigidissimo codice, vestirsi con camicia, gilet e cravatta a farfalla, ha celebrato la grande vittoria di The Rocket chiedendogli se vincerà ancora, se sente la pressione, se ha avuto paura di non farcela, se si sente di aver mancato di rispetto agli avversari.

Ronnie ha risposto che per lui conta solo come sente la stecca. Che non gli importa si trovi nel suo pub preferito o durante una finale del campionato del mondo. “Credo – ha dichiarato – che se volessi superare i record probabilmente non riuscirei a giocare così bene. Devo “abbandonarmi” al gioco e per farlo non posso dare troppa importanza ai record. Se cominciassi a guardare al trofeo di campione del mondo pensando alla sua storia, probabilmente congelerei. Credo che la mia più grande dote sia che mentre gioco una partita del mondiale sembra che stia giocando un match di allenamento giù al club”.

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