Dock Ellis

Dock Ellis, viaggio nella no-hitter più psichedelica della storia

Il 12 giugno 1970, Dock Ellis, giovane lanciatore dei Pittsburgh Pirates, lanciò a San Diego una no-hitter, ovvero un’intera partita senza concedere una sola battuta valida agli avversari. Di per sé si tratta di un fatto piuttosto raro, tanto che, in quasi duecentoventimila partite giocate nella storia della MLB a partire dal 1876, è un evento che si è verificato solamente 305 volte. Ciò che però, rende l’impresa di Ellis unica è il fatto che il lanciatore californiano giocò l’intera partita sotto l’influenza, tra le altre sostanze, dell’ LSD. Questa è la storia di quel bizzarro pomeriggio, come l’avrebbe potuto narrare lo stesso protagonista della vicenda.

Dock Ellis

Non ci posso credere, Richard Nixon. Lo stramaledetto Richard Milhous Nixon, 37° Presidente di questi disgraziatissimi Stati Uniti d’America, è l’arbitro di questa partita. Sfido io che continui a chiamarmi una marea di ball. E cosa diamine dovrei lanciare per sentirlo urlare “strike”?! Ecco, bravo, “strike”! Questa l’hai vista, eh, vecchio imbroglione?! Eppure credevo che Nixon non si occupasse che di politica, di Vietnam ed intrallazzi… Al diavolo! Io continuo a lanciare la mia roba, tanto, per ora, non mi sembra che il line-up dei Padres ci abbia capito granché… sarà per via di Richard Nixon, anche. Dio toglie e Dio concede, così dicono, e a volte è una questione di centimetri, specie nel baseball; e in particolar modo oggi, venerdì 12 giugno 1970, in questo tardo pomeriggio di San Diego. Stranamente pioviggina, e così sugli spalti ci sono solo quattro gatti.

Dock Ellis

Mi chiamo Dock Phillip Ellis Jr., e sono nato venticinque anni fa nella “Città degli Angeli” anche se, a dirla tutta, non è che Los Angeles sia stata per me un vero e proprio paradiso. Tutt’altro. Non voglio fare la morale a nessuno, ma che vi aspettavate da un quattordicenne figlio di un ciabattino con l’ambizione di aprire una tintoria? Ah, sì, per carità, i miei mi hanno amato, nutrito, vestito e fatto studiare e tutto quanto, ma come fai ad interessarti alla scuola quando ti hanno infilato in un ambiente dove, in pratica, sei il solo nero? Adesso sul “diamante” mi chiamano “the Nut”, che è il diminutivo di “Peanut” (nocciolina), però, può essere inteso anche come “il pazzo”, fate un po’ voi. Ma vi assicuro che negli anni della High School, a Gardena, California, mi chiamavano con tutti altri nomi. Non belli, non simpatici: erano soprannomi dolorosi e pungenti. Che avevano in testa i miei? Capisco la voglia di rivincita, il desiderio di affrancarsi, ma mandare il proprio figlio primogenito in una scuola di un quartiere bianco al 99% non mi è mai parsa la più brillante delle idee.

Dock Ellis
Foto: James Blagden/No Mas Productions

Comunque, da ragazzino mi piaceva il basket, e a Gardena riuscii ad entrare nella squadra della scuola solo perché ero davvero mooolto più bravo degli altri. Figuratevi: un solo nero tra una decina di marmocchi bianchi che non saprebbero resistere nemmeno due minuti in uno qualsiasi dei playground di L.A.. Successivamente, il mio ingresso nel mondo del baseball è stata la conseguenza di una vera e propria estorsione. Venni sorpreso a bere vino negli spogliatoi e il coach mi affrontò a muso duro: “Vieni a giocare a baseball oppure ti sospendiamo!” Che scelta avevo? Poi, boh, salta fuori che ero un bravo interbase e che il mio braccio era qualcosa di eccezionale: pensate che i miei amici non volevano più fare riscaldamento con me per evitare di rompersi qualche osso della mano. E il baseball mi piacque ancor più del basket. Allora, anche per racimolare qualche soldo, iniziai a giocare per i Pittsburgh Pirates Rookies, una squadra semi-professionistica della zona. Sì, il nickname non era decisamente fantasioso e la squadra non era legata in alcun modo alla franchigia delle Major Leagues né alla città della Pennsylvania, ma per molti di noi fu profetico. Tanto che adesso mi ritrovo davvero a giocare in National League per i Pittsburgh Pirates, quelli veri. Non gioco più interbase, no: l’essere stato notato ed allenato dal grande Chet Brewer, grande campione nelle Negro Leagues, mi hanno forgiato atleticamente e tecnicamente in quello che sono oggi. Sono un lanciatore e, pare, maledettamente bravo. Tanto bravo da giocare con Roberto Clemente e il resto della “ciurma”. Siamo spavaldi, siamo rumorosi, siamo in maggioranza neri ed ispanici, siamo capelloni (oh, e quanto fa incavolare i papaveri della Lega questa cosa dei capelli, quasi più delle droghe e di tutte le altre questioni politiche) e, soprattutto, ci facciamo valere contro chiunque: siamo una squadra da titolo, e chissà che un giorno non sia davvero così. E che goduria giocare ad Atlanta e scandalizzare qualche vecchio confederato! Sono piccole soddisfazioni, come quella volta che in Alabama inseguii fin sugli spalti un tifoso avversario un po’ troppo “rumoroso”: provate ad indovinare come mi aveva chiamato, quel figlio di una buona donna bianca?

Dock Ellis

Sì, lo so: la gente pensa che io sia una “testa calda”, che mi cacci in troppi guai con la legge e che sia una sorta di leader per il resto dei “fratelli”; e sì, ho decisamente un problema di abuso di sostanze. Ve l’ho detto: da ragazzino non è che tutto quanto della mia vita fosse un idillio. Nemmeno l’inferno ma, baby, il paradiso era a qualche dollaro di distanza. Marijuana, LSD, anfetamine, metanfetamine, tutto il classico repertorio, ma senza esagerare. Tanti ragazzetti, poco esperti e mal consigliati, sanno di cosa parlo: una “calata” di troppo e, good-bye, arriva puntuale l’overdose e ti ritrovi col fegato distrutto e la mobilità di un novantenne, se non peggio. Io invece, ho imparato a darmi un ritmo e sono diventato bravo a tenere sotto controllo tutto quanto. Essere un giocatore professionista di baseball può sembrare una passeggiata: ci sono la fama, le donne e tutto il resto, ma la pressione (beh, un po’ come per la vita in generale) è sempre altissima. Un paio di partite sbagliate e vieni rispedito in “Doppio A” a girare il Midwest su un autobus sgangherato e pieno di marmocchi dello Iowa che ti guardano di traverso e bofonchiano insulti irripetibili. Ci sono passato e, credetemi, non è bello, specie per uno come me. Invece, qui in National League a Pittsburgh è tutta un’altra cosa, e non parlo solo dello stipendio.  E comunque, senza “bennies” e “greenies” non so se sarei in grado di mantenere questo livello e questa pressione, ma cosa posso farci? È il mio modo di essere e il mio modo di giocare; non sto dicendo che è bello e giusto e che dovreste farlo anche voi. Tutt’altro! È un vero schifo, ma questa è la mia vita e non mi permetterei mai di giudicare il vostro modo di essere. E comunque qui tra i “Pirati” mi trovo benissimo. Ad esempio, non potrei mai giocare a Boston, per quel vecchiaccio razzista di Tom Yawkey, o anche solo nel Bronx per quei damerini degli Yankees. Noi “Bucs” siamo una squadra che divide: o ci ami o ci odi, non ci sono vie di mezzo. Fin Jackie Robinson si è accorto di me ed ha lodato il mio impegno sociale, anche se sospetto che il mio stile, aperto e sguaiato, non gli piaccia granché.

Tom Yawkey
Tom Yawkey

Intanto le stranezze di questa partita non cessano: adesso in battuta c’è Jimi Hendrix. Non sto scherzando, il buon vecchio “Cupcake” è lì nel box e, presumo, sia stato da poco ingaggiato a mia insaputa dai Padres. Deve avere un agente coi fiocchi, perché non mi sembra tutto questo granché. Mi sa che sia strafatto anche lui, perché invece della mazza da baseball è lì che sventola la sua chitarra. “Hey, prendi questa se ci riesci!” E infatti è uno strike-out facile-facile. Ci rivediamo presto, vecchio Jimi, magari nel mio “Dungeon” il prossimo week-end! Oggi va così: il tempo, grazie all’acido che ho calato diverse ore fa (o chissà quando…), è così dilatato che mi va pure di continuare a parlare con voi tra un lancio e l’altro, tra un battitore e l’altro. Non fraintendetemi: non è che quando giochi sia sempre così tanto strafatto. Non credo di avere mai giocato una partita tra i pro senza la stampella di una qualche sostanza e questo fin dai tempi del Singolo A, a Batavia: mi aiuta a tenere i nervi a posto, ad essere più rilassato. E non venitemi a dire che questo mi dia un qualche tipo di vantaggio. Non sono come quei patiti che pensano solo a gonfiarsi i muscoli o quei disgraziati che si sfondano di whiskey tra un inning e l’altro. In fin dei conti gli anni Sessanta sono appena finiti, e questi sono gli Stati Uniti d’America. E poi, diciamoci la verità, quanti giocatori professionistici non hanno mai buttato giù della metamfetamina, magari disciolta nel caffè da bere prima del riscaldamento, o fatto uso di Dexamyl? Dimenticate la casa con la staccionata bianca e la reginetta del ballo del liceo, questa è la terra “della Paura e del Disgusto”.

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Credo di essere ormai arrivato al quinto inning. La pallina adesso mi sembra così minuscola tanto da poterla raccoglierla solo pinzandola tra pollice ed indice, ma subito dopo è enorme, grande come tre o quattro palloni da basket, e quasi non riesco a sollevarla dal terreno. Sono sicuro di avere riempito le basi a forza di ball almeno un paio di volte. Ah, ovviamente ho colpito anche un paio di avversari: oggi il controllo non è il mio solito punto di forza, ma è arrivato anche qualche strike-out. In ogni caso, i Padres non hanno ancora ottenuto una sola valida, segno che i ragazzi là in campo ci hanno sicuramente messo del loro. La partita è tirata e siamo avanti di una sola lunghezza, 1 a 0. Adesso mi chiedo dove sia finito il mio catcher; eppure Jerry May dovrebbe essere là, accovacciato davanti a Richard Nixon. Ah, eccolo là, il buon Jerry, chissà dove si era cacciato. Forse era a parlare col Presidente, ma non lo facevo repubblicano.

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Due giorni fa (di questo sono certo) abbiamo giocato e perso una partita diurna a San Francisco contro i Giants. Una bella trasferta sulla West Coast. Il piano era semplice: giornata libera il giovedì e quattro partite tra venerdì e domenica da giocarsi a San Diego contro i Padres. Seguendo la “rotazione” dei lanciatori prevista, a me sarebbe toccata, venerdì, la prima partita del double-header. Chiesi ed ottenni dalla dirigenza il permesso per passare a casa, a Los Angeles, e di riaggregarmi col resto della “ciurma” il venerdì mattina. Prima del viaggio verso L.A. mi calai un po’ di LSD, niente di che, giusto la quantità che avrebbe fatto effetto solo giunto a casa della mia fidanzata la quale, per l’occasione, aveva organizzato una piccola rimpatriata con alcuni amici. Non mi sbagliavo: “Ciao Mitzi, sono fatto come un coppertone! (I’m high as a Georgia pine)”, queste le mie parole una volta varcata la soglia di casa, una volta cominciato il trip. Mitzi preparava ottimi screwdriver e qualche vecchia conoscenza aveva portato dell’eccellente marijuana, perfetta per rilassarsi in compagnia. Ovviamente, avevo con me anche un bel po’ di amfetamine ed LSD e, beh, devo avere davvero esagerato perché quando finalmente mi risvegliai, solo la mia cara Mitzi riuscì a convincermi che avevo dormito per oltre ventiquattro ore e che il sole che brillava là fuori non stava salutando la mattinata di giovedì 11 giugno, ma che si trattasse in realtà di venerdì 12.

Dock Ellis

“Dock – fece lei mettendomi sotto al naso una copia del giornale – oggi devi lanciare a San Diego!” “Ti sbagli, Mitzi: devo lanciare venerdì e il play-ball è alle 6 di sera. Ho tutto il tempo” “Dock, oggi è venerdì, hai passato l’intera giornata di giovedì strafatto e a dormire”. Silenzio. Ma niente panico. Davvero non so come sia riuscito ad imbarcarmi verso le tre del pomeriggio su un charter per San Diego e ad arrivare in tempo per il riscaldamento prepartita. La verità è che non so quanta roba ho preso: deve essere stata davvero tanta. Eppure, eccomi qua: euforico come non mai, concentrato in maniera inquietante e paranoico.

Già, la partita. Siamo al settimo inning e ho appena schivato una battuta rasente che a momenti mi stava per decapitare. Meno male che mi sono gettato dietro al monte di lancio, altrimenti… O forse è successo solo nella mia testa. Dovrò indagare una volta finito l’incontro, se a qualcuno importerà. Beh, importa di certo a Bill Mazeroski, il mio fidato seconda base. Mi toglie le castagne dal fuoco con una presa in back-hand davvero notevole; lui si schernisce e mi dice che non pensava che avrebbe mai fatto quell’out. Io, invece, sapevo che l’eliminazione sarebbe senz’altro arrivata. Bill sa rendere le cose impossibili semplici e scolastiche. E così siamo a ventuno out senza avere subito una valida. Certo, sento che l’acido lavora ancora dentro di me, ma non credo che avversari, arbitri, compagni di squadra si siano accorti di niente. Diciamo che il mio solito modo di fare, non certo ortodosso, aiuta non poco a mascherare la mia attuale situazione. E tuttavia, so bene cosa sta succedendo anche se a volte mi sembra che non ci sia nessuno ad affrontarmi nel box di battuta. È in corso una “no-no” e il rookie Dave Cash, quando siedo nel dugout tra una ripresa e l’altra, non smette di ripetermelo da almeno tre inning, in barba ad ogni superstiziosa consuetudine. Ma nemmeno le parole inopportune di una matricola possono niente contro il destino: due inning più tardi la partita è terminata. Come punto esclamativo ho messo strike-out Ed Spiezio con una bella palla curva. Abbiamo vinto 2 a 0 grazie a due solo home-run di Stargell: ve l’ho detto che è una squadra di campioni. E ancora una volta devo ringraziare la difesa, soprattutto i miei esterni, con Matty Alou in testa. No, non è stato un perfect game (quello sì che sarebbe stato notevole!), ma la no-hitter è intatta. Nessuno del line-up dei Padres è stato capace di realizzare una battuta valida, nemmeno Nate Colbert, che a San Diego sta avendo una stagione eccezionale. Certo, ho concesso a ben otto corridori di raggiungere la prima base, ma mai con una valida. Ma adesso sono nella storia, più o meno: ho lanciato la 174° no-hitter della storia, strafatto di LSD, Speed e Dio sa solo cos’altro. Me tornerò in hotel a festeggiare. Eccome se lo farò!

Dock Ellis

Dock Ellis, dopo questa memorabile no-hitter, rimase con i suoi adorati “Pirati” fino alla stagione 1975. Anche grazie alle sue prestazioni, la squadra della Pennsylvania vinse cinque titoli della East Division della National League e, soprattutto, le World Series del 1971. Nello stesso anno ebbe l’onore di essere scelto come lanciatore “partente” nell’All-Star Game. Nel 1976, quando ormai la dirigenza di Pittsburgh ne ebbe abbastanza dei suoi comportamenti (no, non si parla dell’abuso di droghe, ma del fatto che in più di un’occasione rifiutò di lanciare come “rilievo”), passò ai New Yankees del nuovo proprietario George Steinbrenner. Con i Bronx Bombers ebbe l’onore di essere nominato “Comeback Player of the Year”, raggiungendo le World Series nello stesso anno Niente titolo, però, poiché la squadra di New York non riuscì a vincere nemmeno una partita contro i fortissimi Cincinnati Reds, guidati da Johnny Bench e Pete Rose. Ormai in fase calante, almeno per i suoi standard, finì la carriera giocando per gli Oakland Athletic’s (1977), Texas Rangers (1977-79) e New York Mets (1979). Volle tornare a Pittsburgh per il suo canto del cigno: le dirigenze dei Mets e dei Pirates lo accontentarono e finì dove aveva cominciato la sua carriera nelle Big Leagues.

Dock Ellis

Con un record di 138 partite vinte, a fronte di 119 perse, Dock Ellis, si ritirò proprio a fine 1979 con una ERA (media dei punti guadagnati sul lanciatore) pari a 3.46, un risultato davvero eccellente. Il ritiro, motivato anche da una perdita di “interesse nei confronti del baseball” lo portò alla piena disintossicazione: senza più la pressione della prestazione agonistica Dock Ellis trovò finalmente una nuova pace. Iniziò in California una nuova carriera nell’ambito del recupero dei tossicodipendenti, con un focus particolare sui giovani atleti professionisti. Passato per ben quattro matrimoni, non ebbe particolari fortune famigliari e dovette patire anche il dolore della morte di due delle sue figlie. Di lui, più che le circostanze della “no-hitter” del 12 giugno 1970 (che comunque vennero svelate dal protagonista solo nel 1984), vorrei ricordare le lotte condotte a favore dei propri colleghi soprattutto, sul tema della free agency e per l’avanzamento dei diritti dei giocatori di discendenza afro-americana, tanto da essere lodato per il suo impegno dallo stesso Jackie Robinson. Ha trovato la pace eterna a soli 63 anni nel dicembre 2008, tradito da una grave malattia epatica.

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