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"Les mains de Dieu", foto di John Vink

Essere Diego Armando Maradona

“Ho un sacco di cose da fare“, deve aver pensato Diego sdraiato sul fianco, in un pigro pomeriggio del quartiere residenziale di Tigre, San Andrés, durante l’ennesimo post-operatorio della sua vita. Poi, tendendo appena le orecchie in direzione delle tapparelle quasi completamente abbassate, dev’essere stata la commistione di luce e rumori di tagliaerba a scoraggiarlo, a rispedirlo rapidamente in quel vortice di pensieri ossessivi.

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“Sarò sempre un tossicodipendente. Sarò sempre un tossicodipendente. Sarò sempre un tossicodipendente“. Quando le aveva dette la prima volta, quelle parole, avevano un senso completamente diverso da ora. Erano l’evidenza della sua unicità, del vivere tutto a fior di pelle, ed erano soprattutto contornate da un implicito sottotesto: “pensa cosa sarei riuscito a fare senza la droga, senza le dipendenze“. Un sottotesto che allora era una vera e propria carezza, per lui, ma che ora ha mutato forma come ogni altro elemento della sua esistenza. Ora sa di bieca autocommiserazione.

Sta cantilenando sulla scia dei suoi pensieri adesso, gli occhi fissi nel vuoto. Tanto che il dottor Leopoldo deve segnalargli la sua presenza con un tenue pizzico sulla spalla destra. Allora si ridesta e racconta di sentirsi meglio, lo ringrazia, lo tira persino a sé coinvolgendolo in una danza a metà tra un tango e una tarantella – “abbiamo anche ballato insieme”, confesserà alla stampa poco dopo il dottor Luque. Non ci sono mezze misure con Diego, è lui il primo a volerlo sempre ribadire: ritiratosi da calciatore nel 1997 e prestatosi ancora a partite d’esibizione fino al 2001, nel 2002 stava talmente male che doveva avere il permesso dei medici per guardarla in tv, una partita.

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Appena Leopoldo esce dalla stanza, Diego zoppica nel breve tragitto dalla finestra al letto. Si siede e torna inesorabile il vortice: lo sguardo di quello psichiatra, l’unico che lo trattava come un paziente vero, gli investimenti a perdere nei Bingo, quella paparazzata con Rocio mentre cercava di infilarle la mano nelle mutande, e quella copertina orrendamente riuscita che diceva “La mano de Dios“; perché in fondo tutto quello che lo riguarda è diventato una parodia. “Io sono diventato una parodia“, pensa.

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Foto di Eduardo Longoni

Prima che depresso, malato, tormentato, è arrabbiato Diego. È furioso con chi gli ha fornito un’essenza in grado di raggiungere la pace con se stesso solo dalla cima assoluta del mondo, solo nel riuscire a fare cose talmente grosse e belle che descriverle nel mentre è impossibile, le si possono solo rendere tramite parole evocative, un’onomatopea che segua vocalmente il ripetersi di strabilianze ravvicinate: ta-ta-ta-ta-ta-ta-ta!, come nel gol del secolo contro l’Inghilterra.

È furioso col tempo che non si è cristallizzato a quell’istante, alle sue braccia alzate rivolto al pubblico appena dopo la bandierina del corner, raggiunto in massa dai compagni dell’Albiceleste mentre Víctor Hugo Morales piange e ringrazia Dio “per il calcio e per Maradona”. Non è che ne abbia avuti pochi di momenti simili, è che non li ha avuti sempre. Ma – pensa sollevando la testa in un impeto di auto-incoraggiamento – ho sempre affrontato ogni cosa di petto, ogni conseguenza del mio disordinato districarmi per ritornarci a quei momenti – qualunque fosse il modo.

Se la ricorda ancora la mano dell’infermiera, calda ma non sudata, stretta nella passeggiata alla fine della gara con la Nigeria, nel 1994, verso i controlli anti-doping che lo vedranno risultare positivo all’efedrina e finire in anticipo il suo mondiale, di fatto la sua carriera di calciatore. Verso la sua fine lui ci è andato prendendo per mano la persona deputata a mandarcelo, e non perché non avesse paura, ma perché non si è mai sottratto alle sue responsabilità. Chi altri avrebbe fatto una cosa così? Chi altri ci sarebbe riuscito?

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L’omaggio degli All Blacks

Credeva di averlo solo pensato, ma deve invece aver sussurrato qualcosa, perché uno degli infermieri gli si avvicina chiedendogli se ha bisogno di assistenza. Diego fa solo un gesto con la mano per dire che no, non ha bisogno di niente. Quindi si corica sul fianco e chiude gli occhi, pensando a quella chiara giornata di aprile, a quel San Paolo dal quale sta ancora mestamente uscendo l’11 del Milan, sconfitto. Pensa a una città che si avvicina allo Scudetto e a quell’incrocio di sguardi con i tifosi che cantano Ho visto Maradona, che cantano per il loro Dio. È come una panoramica cristallizzata, è come il 360 gradi degli smartphone solo che è nella sua testa. Può volgersi verso ogni settore dello stadio: in ognuno stanno cantando per lui. Forse non è reale ma è uno scenario che gli regala gioia, che lo fa rilassare. Ed è bello pensare che il pomeriggio del 26 novembre del 2020 Diego si sia addormentato, sereno, con questa immagine.

Foto di copertina: “Les mains de Dieu” – John Vink

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