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Rapha-Palace: un tarlo costruttivo

Earworms, ovvero “bachi delle orecchie” (traduzione letterale) ma anche più semplicemente “tormentoni”. In breve, è questo il termine che denota quel meccanismo per cui un brano musicale entra inconsciamente nella testa di un uomo e lì vi si annida, portando poi l’individuo affetto nelle ore, nei giorni e anche nelle settimane successive, a canticchiarne spezzoni, a fischiettarne le note, a ripeterne assiduamente la melodia nei momenti più disparati.

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Una delle ragioni per cui questo processo può innescarsi in ognuno di noi risiede nella ripetitività con cui il nostro apparato uditivo entra in ascolto di un pezzo o di una sinfonia musicale di qualsiasi genere. Anche altri elementi come ritmo, intervalli e suoni incidono poi, nella memorizzazione e nella successiva riproduzione di un brano ma la ripetitività è, a tutti gli effetti, la conditio sine qua non per cui tale comportamento possa attivarsi. Cambiando organo e traslando questo processo sul piano visivo, è altrettanto vero che lo spaesamento, provocato ad esempio dalla visione di un quadro o, più in generale, di un’immagine dai connotati ambigui, può sparire o acuirsi riosservando più volte la res perturbans in oggetto; di conseguenza, anche il parere o il giudizio elaborato da noi in merito può cambiare, passando da un apprezzamento a una critica e viceversa.

In questo turbamento appena descritto si saranno riconosciuti molti di quelli che, recentemente, per un motivo o per l’altro si sono imbattuti nello speciale kit indossato dai corridori della Education First all’ultimo Giro d’Italia, ideato e realizzato da Rapha in collaborazione con Palace.

La collection in questione, comprendente una linea tecnica con caschi, maglie e pantaloncini dedicati alla competizione e una di prodotti lifestyle con felpe, t-shirt e giacche griffate con gli stessi temi ricorrenti, ha trovato tanti fermi oppositori, diversi favorevoli entusiasti e altri che, dopo un primo fugace sguardo, tappa dopo tappa e giorno dopo giorno hanno rivisto (parzialmente o totalmente) la propria posizione a riguardo.

Se molti, però, si sono spesi con questi termini e hanno esibito delle perplessità – primo fra tutti il Wall Street Journal – attorno al vestiario indossato dalla compagine americana alla Corsa Rosa, è perché quest’ultima non si è solo limitata a disegnare e proporre un nuovo kit gara ma lo ha fatto appoggiandosi – in un’operazione di marketing perfettamente orchestrata – a un brand avulso dal ciclismo, catapultando in questo modo il mondo streetwear direttamente all’interno di una delle manifestazioni su due ruote più celebri e seguite.

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L’incontro tra questi due universi, specialmente per gli appassionati del pedale, è stato piuttosto shockante o disruptive, come lo hanno definito i media anglofoni, ovvero dirompente, devastante: all’improvviso la carovana del Giro si è trovata circondata da divise sgargianti combinate con pattern a pois, ipnotizzata da trame psichedeliche, invasa da voluminosi triangoli di Penrose recanti i nomi dei due principali brand coinvolti, illuminata dalle effigi di soli new age, assediata dall’inconfondibile sagoma di paperi in stile cartoon, abbagliata da geometrie a scacchiera e spruzzate di elementi fluo.

Di fronte a tutto ciò, tra tifosi, appassionati e addetti ai lavori hanno immediatamente iniziato a serpeggiare sbigottimento e incredulità. Nulla, infatti, pareva avere senso anzi, ogni cosa sembrava in perfetto e perenne contrasto con le altre. Anche impegnandosi, trovare una razionale spiegazione a queste scelte di vestiario si è subito rivelato drammaticamente difficile e dunque bollare questo come un fallimento è diventata la più inflazionata e veloce delle conclusioni.

All’improvviso la carovana del Giro si è trovata circondata da divise sgargianti combinate con pattern a pois, ipnotizzata da trame psichedeliche, invasa da voluminosi triangoli di Penrose recanti i nomi dei due principali brand coinvolti, illuminata dalle effigi di soli new age, assediata dall’inconfondibile sagoma di paperi in stile cartoon, abbagliata da geometrie a scacchiera e spruzzate di elementi fluo.

Eppure, dato ciascuno il proprio verdetto personale, a chiunque vi fosse incappato per diverso tempo le immagini di questo kit hanno continuato a rimbalzare in testa, senza apparente motivo, alla stregua di un vero e proprio earworm, un fenomeno che in ogni caso, bisogna ricordarlo, poggia su solide basi scientifiche.

Anche lo straniante “caso” visivo di Rapha e Palace e l’apparente insensatezza delle loro scelte ha le sue motivazioni, ma per trovarle bisogna risalire proprio all’accostamento di due mondi sulla carta molto lontani tra di loro come quello del ciclismo e quello dello streetwear, legato alla sfera “skate”. La commistione volontaria dei due ambiti ha, infatti, finito per dar vita a qualcosa di nuovo e mai visto prima, in grado, per le sue specifiche e diverse origini, di rompere con le tradizioni, le convenzioni e gli schemi del passato (anche recente) in materia di abbigliamento ciclistico-sportivo e per questo sfuggire a ogni logico legame con il design e le linee ammirate negli ultimi anni.

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In sostanza, l’intenzionale mancanza di logica data dal volontario intento di staccare decisamente dallo stile contemporaneo in questa circostanza è diventata il tratto peculiare e caratteristico della collection, quello che l’ha resa unica e accattivante ancorandola inconsciamente al nostro panorama cerebrale. Sfruttando la trasversalità del marchio, Palace non si è limitata a concepire una nuova linea di abbigliamento sportivo ma è andata decisamente oltre, ignorando i canoni dell’ingombrante tradizione ciclistica e portando, tramite la riproposizione qua e là di elementi già visti (il papero in stile comic ricalca da vicino la “Z” e lo stile fumettistico della divisa della Vetements Infants di fine anni Ottanta), una ventata d’esuberante anticonformismo.

È proprio questo tocco quasi derisorio e irriverente nei confronti degli standard attuali che ha fatto storcere il naso e gridare allo scandalo molti puristi del genere. A prescindere, però, dai gusti personali e dal fatto che ci si voglia allineare su una posizione piuttosto che su un’altra, ciò che si deve riconoscere ai due brand d’oltremanica è l’aver portato congiuntamente nel ciclismo una visione fresca e differente e, con essa, un linguaggio più moderno in grado di avvicinare un più ampio e (potenzialmente) più giovane pubblico.

Per “portare nuova attenzione su questo sport dall’esterno” Rapha si è affidata a un marchio “estraneo all’estetica del ciclismo, ignaro delle sue origini e poco avvezzo alle sue usanze” il cui fine ultimo in questa partnership è stato “mostrare che il ciclismo è per tutti ed è meritevole di attenzioni e sorrisi“. Con l’incontro tra “skate e ciclismo su strada nella terra della moda” le due realtà, nonostante quello che dicono molti, sono riuscite nel loro intento, sollevando dibattiti, discussioni e attenzioni mediatiche che non possono che essere accolte favorevolmente da una disciplina ancora fortemente dipendente dalle sponsorizzazioni private.

Smuovere, quindi, le acque e far vedere che il ciclismo è un mondo – e ancora prima un mercato – aperto alle novità e appetibile anche per realtà distanti da quelle del pedale non può che giovare a un movimento la cui salute negli ultimi tempi, tra corse annullate e squadre dismesse per mancanza di fondi, è stata e continua a essere parecchio funestata da difficoltà economiche diffuse.

Lo “shock” causato da EF assieme a Palace, perciò, si colloca in questa direzione, ambendo, come fine ultimo, ad intercettare e avvicinare sia nuove fasce di pubblico che nuovi investitori a uno sport dove già, almeno a livello di ordini d’arrivo, una nuova generazione sta facendo faville. Sicuramente il tarlo lanciato ha attecchito in qualcuno; la speranza è che ora possa continuare a propagarsi e ad agire anche nei cuori e nei cervelli sensibili di altre persone.

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