Babe Ruth

L’altare di Babe Ruth: una finestra sulle luci di New York

Breve ritratto spirituale del più grande giocatore di baseball di tutti i tempi

Un volto che non può certamente mancare su un eventuale “Monte Rushmore” del baseball professionale è quello di George Herman “Babe” Ruth, uomo ed atleta fuori dagli schemi che ha caratterizzato e monopolizzato lo sport professionistico e la cultura americana negli anni Venti e Trenta. Anzi, molti, probabilmente a ragione, ritengono che The Bambino, il soprannome che gli fu affibbiato per sottolineare la sua precocità sportiva, possa essere considerato il migliore giocatore di sempre.

Babe Ruth

I successi di squadra e i record individuali, tra i quali spiccano le 7 World Series vinte (3 con i Boston Red Sox e 4 con i New York Yankees), la “media battuta carriera” di .342, i 714 fuoricampo, l’elezione tra i primi cinque storici membri della “Hall of Fame” e le 94 vittorie come lanciatore, condite da una “ERA”, la media dei punti guadagnati sul lanciatore, pari a 2,28, raccontano di un atleta di classe purissima, in grado di vivere due carriere distinte tra il monte di lancio ed il box di battuta. A Boston, infatti, Babe Ruth s’impose come lanciatore, mentre a New York venne “reinventato” – con felicissima intuizione – quale esterno e slugger in grado di fare tremare i polsi a tutti i migliori pitcher dell’American League.

Fuori dal comune furono la sua forza, la sua stoica resistenza alla fatica e al dolore: nella sua lunga carriera non subì infortuni degni di nota e una volta, dopo avere sbattuto contro un muretto per recuperare coraggiosamente al volo una pallina, si rimise in piedi con nulla fosse e continuò a giocare dopo essere stato incosciente per cinque minuti. Leggendari gli aneddoti legati alle sue abilità agonistiche e alla sua “arroganza sportiva”. Come non citare, infatti, il celeberrimo called shot, il fantomatico fuoricampo “dichiarato” battuto durante le World Series del 1932. Romantiche e stupefacenti le leggende legate al suo nome, come quella (non del tutto accurata, in realtà) della Maledizione del Bambino quando, risentito per la cessione ai New York Yankees dovuta, si disse, alla necessità di finanziare il musical No, no, Nanette prodotto dall’allora proprietario dei Red Sox, dichiarò che, da allora, Boston non avrebbe mai più vinto un campionato: in effetti da quella storica “trade”, New York vinse 29 titoli, i Red Sox, invece, non vinsero più per 86 lunghissimi e dolorosissimi anni, spezzando la maledizione solo nel 2004.

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Insomma, reperire notizie ed aneddoti sulla lunghissima carriera sportiva del Sultan of Swat non è certo difficile, specie nell’epoca della rete. Ma qui si cercherà di capire, invece, chi fosse veramente il Babe Ruth l’uomo, il formidabile atleta di Baltimora e non la “macchietta larger-than-life” dipinta dai giornalisti sportivi e di costume nel periodo compreso tra le due Guerre Mondiali.

Dopo avere sbattuto contro un muretto per recuperare coraggiosamente al volo una pallina, si rimise in piedi con nulla fosse e continuò a giocare dopo essere stato incosciente per cinque minuti.

La narrazione del comportamento pubblico di Ruth, del suo carattere e del suo modo di vivere la socialità, delinea apparentemente il profilo di un uomo rissoso, dal temperamento incendiario; ci appare un campione, certo, ma dedito al fumo, all’alcol e alla vita notturna. Ma, come vedremo in seguito, questi tratti erano solo una parte dell’umanità del “Bambino”. Un po’ come altri grandissimi del mondo dello sport (un parallelismo con Diego Armando Maradona può essere più che azzeccato, visto che stiamo parlando di due atleti considerati i più grandi delle loro rispettive discipline), Ruth ha vissuto il suo straordinario talento in maniera disordinata e discutibile, imponendosi al grande pubblico come figura affascinante e divisiva, come un mito dei Roaring Twenties, i “ruggenti anni Venti”.

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Per capire meglio l’Uomo dietro al Personaggio non bisogna dimenticare le sue umilissime origini. La vita di Ruth iniziò nel 1985 a Baltimora, in un contesto famigliare violento e disfunzionale (pensate che il padre venne ucciso dal cognato in seguito ad una rissa): a soli 7 anni, quando il nostro già marinava la scuola, compiva piccoli furti nella zona del porto, masticava tabacco e beveva alcol; venne mandato dai disperati e, non certo incolpevoli, genitori al St. Mary’s Industrial School for Boys, un istituto per “ragazzi difficili”, gestito dai Frati Saveriani proprio nel centro della capitale del Maryland. Lì, tuttavia, avvenne l’incontro che cambierà la vita del giovane Herman: Frate Matthias, al secolo Martin Leo Boutilier, un biondo religioso d’origine canadese spalmato su un fisicaccio di quasi due metri, scorse in quel ragazzo scapestrato ed irrefrenabile un cuore d’oro e, soprattutto, un talento straordinario per il gioco del baseball, tanto da consigliare ai Baltimore Orioles l’ingaggio del giovanissimo Babe. Non solo: Fra’ Matthias divenne negli anni un vero e proprio mentore per Ruth tanto che questi, nella sua autobiografia del 1947, scrisse che:

…ero al St. Mary’s quando incontrai ed imparai ad amare il più grande uomo che abbia mai conosciuto. Il suo nome era Fra’ Matthias ed era il padre del quale avevo bisogno. Mi insegnò a scrivere e a leggere e mi insegnò la differenza tra giusto e sbagliato.

Babe Ruth, convertitosi al cattolicesimo sulla spinta degli insegnamenti spirituali dei Saveriani della St. Mary’s e ben cosciente del valore (e del disvalore) dei suoi comportamenti pubblici e del fatto che, per usare le sue parole, “solo Dio era il vero boss…anzi, il Boss di tutti i Boss“, percorse tutta la sua carriera sportiva, e quasi tutta la sua vita terrena, in bilico tra il dionisiaco e l’apollineo. Il suo enorme talento sportivo e la sua straordinaria forza fisica (ancor più stupefacente se si pensa che il suo fisico, inizialmente longilineo e ben tornito, venne successivamente provato dai numerosi eccessi e non risultasse particolarmente definito a livello muscolare nemmeno per i ben più generosi standard atletici dell’epoca) gli regalarono fama, successo e soldi: la sua attitudine al divertimento, alle mangiate pantagrueliche (si narra di una feroce predisposizione all’ingestione di notevoli quantità di hot dog), al whiskey ed al sigaro, la sua dedizione esagerata alla vita notturna e ai vizi carnali lo resero ancor più popolare e leggendario.

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Ma l’uomo George Herman Ruth, quasi a distanziarsi dal personaggio pubblico, non saltava quasi mai l’appuntamento settimanale con l’Eucarestia – magari appena dopo una nottata di bagordi nella Grande Mela – e, come da prescrizioni evangeliche, visitava i malati e gli infermi, soprattutto bambini e infanti, portando conforto materiale e spirituale. Questo aspetto di Ruth rimase per molto tempo nascosto al grande pubblico, forse perché ai rotocalchi interessavano di più le sue scorribande nei locali notturni di Manhattan e la sua sconfinata collezione di multe per eccesso di velocità. Il personaggio Babe Ruth, invincibile, indistruttibile ed esagerato, “serviva” molto di più che l’uomo Babe Ruth.

Più i record cadevano, più i successi aumentavano, più gli homerun s’accumulavano, più il suo mito cresceva, talvolta anche a discapito dei suoi leggendari compagni di squadra dei New York Yankees, la franchigia che lui più di tutti portò a diventare la più vincente della storia. Il suo carattere esplosivo ed irriverente, il suo essere così tanto fuori dagli schemi lo portarono, alla fine della sua carriera di giocatore, ad essere sostanzialmente abbandonato dal mondo del baseball: nonostante vari tentativi, nessuna squadra professionale lo volle come allenatore. Nessuno trovò il coraggio di correre un tale rischio: anni di “prodezze” dentro e fuori dal campo avevano creato più nemici che amici nell’ambiente del “diamante”.

Alla fine della sua vita, quando un tumore alla gola – tragico ma non inaspettato lascito della sua smisurata passione per i sigari – si era ormai fatto strada nel suo corpo nel 1948, scrisse una lunga lettera-testamento dove confidò al mondo di come non avesse mai abbandonato del tutto la sua fede religiosa anche all’apice della fama e del successo:

‘…mentre mi allontanavo dalla Chiesa, avevo il mio “altare”, una grande finestra del mio appartamento di New York con vista sulle luci della città. Spesso mi inginocchiavo davanti a quella finestra e dicevo le mie preghiere’.– e ormai cosciente dell’approssimarsi del termine del suo percorso terreno, aggiunse: ‘…avevo consegnato la preoccupazione e le mie paure a Dio, che mi guardava con la Sua immensa misericordia’.

Conscio della sua fragile umanità, della sua eclatante imperfezione – almeno agli occhi del pubblico puritano americano – e dei suoi numerosi eccessi, Babe Ruth rimise la sua anima ad un Dio paterno e misericordioso, un Boss dei Boss capace di perdonare il milione di peccati commessi in vita, eventualmente a fronte di un solo gesto di carità.

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