simulazione sterling
Raheem Sterling cade a terra per il rigore decisivo dell'Inghilterra contro la Danimarca Laurence Griffiths POOL/AFP

Sulla simulazione e la moralità nel calcio

In uno sport come il calcio, che presenta molte forme di gioco scorretto, la simulazione ispira un particolare oltraggio moralistico.

Nel 1922 Ryūnosuke Akutagawa scrisse un racconto breve, Nel bosco. L’opera, che narra le vicende di tre personaggi che interrogati sulla morte di un samurai mentono per salvare il proprio onore, si interrogava sulle capacità dell’uomo di mentire non solo agli altri, ma anche a se stessi. È strano, ma ogni volta che guardo una partita mi viene in mente questo racconto.

Ryūnosuke Akutagawa
Ryūnosuke Akutagawa

Fin da bambini, da quando cioè ci siamo avvicinati al calcio, assistiamo in pressoché tutte le partite a giocatori che toccati a malapena da un avversario crollano a terra invocando il fallo. C’è chi atteggia una mimica plateale e sacramenta a gran voce contro tutte le gerarchie celesti, e c’è chi è più discreto: si limita a delle smorfie, stringendosi in posizione fetale con le ginocchia rannicchiate sul petto e gli occhi chiusi in spasmi di dolore. Dipende molto dalla linea recitativa che il calciatore decide di adoperare.

Quando nel 1986 Maradona, dopo il gol segnato con la mano, disse ai compagni: “Venite ad abbracciarmi o l’arbitro non lo convaliderà” e nell’intervista post partita dichiarò che il gol era stato siglato: “un poco con la cabeza de Maradona y otro poco con la mano de Dios”, le reazioni furono diverse e pochi, oltre agli inglesi, si disgustarono di un comportamento così sleale. Di certo, ci risero su gli argentini che lo videro come un gesto di rivalsa contro quella nazione che appena 4 anni prima le aveva sottratto il dominio delle Falkland. 

Come capita spesso in questi casi, molti intellettuali sviscerarono la solita retorica banale basata sulla metafora del calcio come la vita, un’idea così vaga e indeterminata che potrebbe valere per qualsiasi cosa. E come ha scritto Martin Amis: “Gli amanti del calcio intellettuale sono un gruppo disprezzato sia dagli intellettuali che dagli amanti del calcio.” In Italia (ma ho il sospetto che valga un po’ in tutti i Paesi) gli intellettuali parlano di calcio come parlano di poesia a persone che non leggono la poesia, e gli amanti del calcio  – salvo qualche eccezione – semplicemente ignorano gli intellettuali. Eppure questa retorica ha, dalla Mano de Dios in poi, generato un’eredità duratura tesa a ravvivare un approccio del calcio moralistico. Dapprima fu la FIFA che alla fine degli anni Ottanta ideò il premio Fair Play, un riconoscimento simbolico per stimolare la sportività. Il primo premio venne assegnato nel 1987 ai tifosi scozzesi del Dundee United per il buon comportamento nei confronti dei loro colleghi svedesi, i tifosi dell’IFK Göteborg. Ma poi le regole divennero sempre meno chiare fino al 1998 quando quella gratifica si tramutò in un premio politico: le confederazioni calcistiche americane e iraniane lo ricevettero per la partita giocata ai Mondiali di quell’anno senza incidenti, e lo condivisero con l’Irish Football Association of Northern Ireland per la promozione di una partita a Belfast tra Cliftonville e Linfield, rispettivamente le sedi della comunità cattolica e di quella protestante. 

Poi nel 1999 l’IFAB decise di introdurre la simulazione fra i “comportamenti antisportivi“; sebbene il calcio sia uno sport pieno di atti antisportivi (il difensore che alza le mani in segno di innocenza mentre prende a calci volontariamente lo stinco dell’attaccante; l’allenatore che sostituisce i giocatori alla fine di una partita per far scadere il tempo; il centrocampista che lancia la palla qualche metro più in là dal punto in cui è stata consumato il fallo; il portiere che fa un leggero passo avanti per aumentare le sue possibilità di difendere un calcio di rigore, ecc.) solo la simulazione incontra l’indignazione generale. Un’indignazione che a volte raggiunge vette impensabili. Nel maggio del 2010  Goran Tunjic del Mladost Fc, una squadretta di una serie minore del campionato croato, era davanti al portiere dello Hrvastki Sokola ma invece di calciare crollò a terra senza motivo; l’arbitro lo ammonì per simulazione, ma Tunjic non si muoveva da terra: era morto. Un infarto. Non stava mentendo.

Sebbene il calcio sia uno sport pieno di atti antisportivi solo la simulazione incontra l’indignazione generale.

Il calcio è di per sé uno sport ambiguo, come scrive Nuno Ramos, scrittore e artista visivo brasiliano: “l’intero gioco è costruito su un traffico di corruzione“. Il campo è enorme, percorso solo da un arbitro e pochi suoi assistenti (e il VAR così com’è usato di certo non aiuta a evitare ogni ambiguità), e la mischia costante di calci, spinte e scivolate fa sì che quasi tutta l’azione sia aperta all’interpretazione. Jankélevich riteneva che le bugie e i fraintedimenti costituiscono la trama sottile dell’agire sociale, il tessuto connettivo della nostra vita adulta, mentre la verità ne è, piuttosto, una forma di trasgressione ingenua, infantile e pura. E mi pare che questo sia il caso. 

Gli almanacchi sono pieni di episodi di simulazioni più o meno riuscite. La più celebre è quella messa in piedi dal portiere cileno Roberto Rojas che si tagliò la faccia con una lametta nascosta nei guanti dopo il lancio di un petardo dagli spalti. Ma sul podio non possono non esserci anche quella di Rosbin Ramos, il quale, mentre tutti erano attorno a un calciatore infortunato, raccolse un oggetto dal prato e stupidamente se lo picchiò contro la tempia, prima di stramazzare al suolo e cominciare a rotolarsi in preda ad un dolore tanto lancinante quanto falso, e quello di Dida, noto portiere rossonero, che durante una partita di Champions League dopo un leggero buffetto di un tifoso avversario prima tentò di inseguirlo e poi cadde a terra come se colpito da un cecchino. 

La simulazione altro non è che una forma a volte sofisticata (come nel caso di Völler durante la finale di Italia ‘90) a volte sfacciata della menzogna, basti pensare alla figuraccia mondiale fatta da Immobile durante la partita degli Europei contro il Belgio. Ma mentire, come a denti stretti afferma Kant, è lecito in caso di necessità, quando è possibile la violazione di ogni istanza morale. E allora la domanda diventa una sola: nel calcio vincere è l’unica cosa che conta? Una domanda che gli appassionati e addetti ai lavori si fanno dalla notte dei tempi senza mai trovare una risposta che metta d’accordo tutti. Eppure è solo risolvendo questo enigma che possiamo arrivare al nocciolo della questione. Perché se vincere non è l’unica cosa che conta, bensì lo spettacolo, il far divertire il pubblico allora la simulazione, come gli altri atteggiamenti antisportivi, sono un insulto alla morale di questo sport. Ma al contrario, se davvero la vittoria è l’unica cosa che conta allora è necessario per il calciatore fare di tutto per acciuffarla. È il suo lavoro; vive per questo. In questo modo la simulazione non è più da etichettare come comportamento scorretto o peggio, ma diventa solo un altro mezzo per arrivare al premio finale. 

Di certo, non è questa né l’occasione né la sede giusta per diramare una questione del genere che ha il sapore dell’uovo e della gallina. Però, è emblematico come la simulazione sia diventata nel tempo l’atto più vergognoso per un calciatore. Tutto si può perdonargli, anche un gol sbagliato a porta vuota, ma non una caduta fasulla in area di rigore. È un imbroglio bello e buono che depaupera il senso della partita stessa. 

Eppure non è sempre stato così. Ricordo quando durante il mio primo periodo universitario vivevo in un collegio con altri ragazzi della mia età. C’era tutta l’Italia: ragazzi che venivano da Pantelleria, i quali dicevano che anche gli africani potevano chiamarli terroni, giacché l’isola era anche più a sud della Tunisia, e ragazzi che venivano da Cuneo e che non erano stati più a sud di Roma. Sebbene ci fossero delle evidenti differenze culturali, tutti eravamo appassionati di calcio e durante le partita della domenica e della Nazionale ci incontravano nel salone del collegio e davanti a un maxi schermo montato per l’occasione guardavamo esaltati le partite. Ricordo che tutto il Mondiale del 2006 lo vidi in quello stanzone tra gente esagitata che imprecava e urlava in un apice di maleodore prettamente maschile. Quando un giocatore italiano arrivava in area e non sapeva più cosa fare, indeciso se tirare o passare la palla, tutti noi urlavamo: “Cadi! Cadi e basta!

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