Paralimpiadi tokyo 2020

Paralimpiadi, non dimentichiamocele per i prossimi anni

Tutti sul carro, come sempre. Poi, però, ci dimentichiamo degli sport per atleti con disabilità il giorno dopo la fine delle Paralimpiadi. Che, diciamocelo, purtroppo hanno avuto ancora una volta una pessima divulgazione anche nei canali di stato. La Rai, che già non è stata esaltante (come anche DAZN o Sky) nella messa in onda delle discipline olimpiche facendoci perdere un sacco di performance dei nostri atleti, ha completamente messo sul piatto l’evidenza che stona coi risultati: delle Paralimpiadi non frega niente a nessuno. E questo, nel 2021, è disarmante.

Sono passati decenni da quando nel 1948 il neurochirurgo tedesco Ludwig Guttmann, già direttore del centro delle lesioni spinali di Stoke Mandeville in Inghilterra, decise di dare un’opportunità, un momento, un luogo dove anche coloro che non avevano le stesse possibilità di chi stava bene, di chi non aveva dovuto lottare con il fato e con altre mille insidie, potesse finalmente dimostrare che qualcosa valeva, che qualcosa sapeva fare nonostante tutto. Nonostante qualcuno all’inizio pensasse che tutto questo era un fenomeno da baraccone. Non è così, non è stato così.

Era un periodo gonfio di lacune, il mondo intero si era appena, ma proprio appena, buttato alle spalle la Seconda guerra mondiale e molti dei cosiddetti futuri atleti paralimpici erano proprio ex combattenti o civili resi storpi, feriti e disabili dalla guerra. Non tutti, ovviamente. Ma non c’è nulla che possa farti riemergere dal fondo più forte dello sport. E su questo presupposto si poggia l’idea di Guttman.

Lo stesso Ludwig, il padre delle Paralimpiadi, ha dovuto affrontare un infortunio, una defezione che ha colpito la Germania negli anni Trenta, l’arrivo di Adolf Hitler e del nazismo. Ludwig era ebreo, rischiò il linciaggio da parte delle SS, la segregazione in un campo di concentramento, ma riuscì, insieme alla sua famiglia, a salire su una nave e partire per l’Inghilterra. Ed è da quella libertà di pensiero e di azione che nascono le idee e le rivoluzioni.

La consacrazione delle Paralimpiadi si ha a Roma nel 1960. Ed è proprio la delegazione italiana che possiede il maggior numero di partecipanti. All’inaugurazione sono 400 gli atleti in gara che si presentano davanti a un pubblico di circa cinquemila persone. Un pubblico modesto, rispetto a quello presente per le Olimpiadi, ma è pur sempre la prima volta che le Paralimpiadi sembrano avere una forma ben definita. Da allora si susseguono manifestazioni una dietro l’altra, al netto del periodo dello spionaggio e del controspionaggio sovietico-americano, ma c’è la netta sensazione che sia un momento riservato a loro e non a tutti. Come se le Paralimpiadi fossero un grande parco giochi per chi giocare non può, per lo meno non può come gli altri.

Servono le Olimpiadi del 2012, quelle di Londra, per cambiare le cose, quanto meno da un punto di vista comunicativo.  A qualche giorno dal termine dei Giochi iniziano ad apparire cartelloni giganti di colore nero in giro per Londra con scritto: “Thanks for Warm Up” come a dire, finora avete scherzato, guardate adesso cosa significa essere dei veri atleti. Sicuramente non un messaggio di stima nei confronti degli atleti delle Olimpiadi, ma anche loro hanno compreso che per mostrare le unghie c’è bisogno di un atto di coraggio, di un atto provocatorio, fuori dagli schemi. E quei cartelloni in giro per Londra erano questo: marketing legato indissolubilmente a una sana richiesta di aiuto. Le Paralimpiadi avevano bisogno di pubblico e il pubblico, grazie anche a una continua comunicazione, ha risposto presente.

Paralimpiadi Londra 2012

Ma non è stato sempre tutto così semplice e bello, anzi. Ad Atlanta non esisteva un comitato Paralimpico, in Grecia, alle Olimpiadi di Atene, gli spalti per gli atleti paralimpici erano vuoti. Vuoti nel vero senso della parola. Dentro gli stadi c’erano solo gli atleti e i giudici: stop! La Russia si rifiutò di ospitare le Paralimpiadi nel 1980. E per tutta risposta gli organizzatori delle Paralimpiadi crearono una piccola olimpiade per conto proprio, ad Arnhem nei Paesi Bassi. Sicuramente fu un ripiego, ma nessun atleta paralimpico voleva fare a meno dei Giochi nell’anno in cui l’ideatore di tutto aveva lasciato questo mondo. Il dottor Guttman morì all’inizio del 1980 e nessuno voleva arrendersi alla decisione dei russi, sarebbe stato come accettare di non esserci, accettare le decisioni degli altri, accettare l’inaccettabile. I Giochi Paralimpici si dovevano fare. Ed è per questo che l’evento di Arnhem fu stata una risposta al mondo intero, soprattutto a coloro che ripudiavano, allontanavano e schernivano gli atleti paralimpici.

Quasi quarant’anni dopo, l’intoppo russo rischiava di ripetersi a sud dell’equatore, alle Olimpiadi di Rio del 2016. Il comitato aveva tralasciato i finanziamenti per le Paralimpiadi, concentrandosi esclusivamente sulle Olimpiadi. A poche settimane dall’inizio dei Giochi a Rio c’era ancora il rischio che le Paralimpiadi non si disputassero. Perché? Mancanza di fondi. Le casse brasiliane erano state svuotate, depredate per le Olimpiadi, ma per fortuna alla fine i Giochi Paralimpici si fecero e furono loro a salvare la manifestazione. Gli stadi erano deserti poi, in un Paese dove ci sono 24 milioni di persone con disabilità, gli atleti hanno fatto il resto. Le imprese, le vittorie, le sconfitte, le storie. In massa brasiliani e non acquistavano biglietti per le Paralimpiadi di Rio.

È proprio su questo filone che a Tokyo 2021 le Paralimpiadi sono state un successo. Anche per l’Italia che non aveva mai conquistato così tante medaglie. Eppure non c’era modo di vederle. Non c’era modo di poter ammirare il talento, la forza di volontà, il coraggio, la fame che questi atleti avevano. Mediaticamente, purtroppo – quantomeno in Italia – si è visto pochissimo, qualche spezzone sui telegiornali nazionali, qualche video sui quotidiani online sportivi e poco altro. Non è questo quello che vogliono gli atleti, gli organizzatori; non è questo che ci ha insegnato Londra, non è questo che si aspettava Ludwig Guttman. Certo, abbiamo fatto passi avanti, ma non basta, serve di più, serve che gli atleti paralimpici entrino nella quotidianità come qualche anno fa era riuscito a fare Pistorius, come è riuscita a fare Bebe Vio, oggi trattata spesso come oggetto di marketing; ma andrebbe bene se “usando” lei riuscissimo a scoprire di più. Più vite, più emozioni, più esseri umani che vanno oltre i propri limiti per provare ad essere se stessi. Perché, come diceva qualcuno, gli atleti paralimpici non sono solo uomini e donne, sono super uomini e super donne che all’apparenza hanno qualcosa in meno, ma che ogni volta dimostrano di avere qualcosa in più.

About

Zeta è il nostro modo di stare al mondo. Un magazine di sport e cultura; storie e approfondimenti per scoprire cosa si cela dietro le quinte del nostro tempo,

Altre storie
Lara-Lugli
Lara Lugli, un 8 Marzo “es-clusivo”