salernitana multiproprietà

Libera nos a malo

Era il 6 settembre quando la Salernitana annunciava l’acquisto di Franck Ribéry. In 13mila accolsero il francese allo stadio Arechi, e il direttore sportivo Angelo Fabiani dichiarava che: “Ribéry a Salerno è come Maradona a Napoli.” Poteva sembrare il rilancio di una piazza, rimasta troppo a lungo ai margini del calcio nazionale più importante, ma, in realtà, era un coupe de théâtre; il tentativo ultimo, furbo, frettoloso di una dirigenza per tentare una riconciliazione con la parte più intransigente del tifo granata.  Un rapporto incrinato a causa della gestione del duo Mezzaroma-Lotito agli occhi dei salernitani non altezza della loro passione. Non è un segreto che il patron della Lazio abbia sempre considerato la Salernitana nulla di più di una succursale della squadra capitolina. Emblematica la dichiarazione di Lotito nel 2019, l’anno del centenario del club:

Il problema della Salernitana è l’ambiente che si lamenta a sproposito. Dov’è stata questa società in cento anni di storia?

A Salerno, come in molte realtà provinciali del sud Italia, il pensiero comune è che il club appartenga seriamente ai suoi tifosi. I tifosi granata sentono davvero di essere i veri protagonisti della squadra, perciò nel loro racconto sono loro i modelli da seguire, molto più dei giocatori. Gli striscioni e i cori negli stadi non sono dedicati alle stelle della squadra, ma ai tifosi più rappresentativi. Alcuni quartieri della città sono addobbati con murales e stampe dedicati ai volti che negli anni hanno riempito gli spalti dell’Arechi. Perfino negli annunci mortuari sono presenti dei chiari riferimento al tifo. “Un fedelissimo granata“, si legge in molti di loro. Come spiegato da un tifoso, tutto questo: 

è legato all’identità di Salerno, il piccolo capoluogo di una provincia molto estesa fatta di tanti paesi in cui ci sono squadre con una certa tradizione, anche a livello di Serie C. Negli anni Settanta e Ottanta si giocavano dei derby infuocati e andava affermandosi il movimento ultras, e quindi seguire la Salernitana in casa e in trasferta significava vivere certe dinamiche, provare certe emozioni. Forse a Salerno siamo ancora legati a quell’idea di calcio sociale, di tifo come aggregazione, solo che da allora sono cambiate troppe cose e quindi ci siamo dovuti costruire dei miti diversi.

salernitana protesta tifosi

Quello che è successo in questi ultimi mesi non può che essere valutato per quello che è: un dramma. Un dramma per questi tifosi, visceralmente legati alla loro squadra, che dopo l’entusiasmo di una promozione attesa 23 anni, hanno dovuto aspettare l’ultimo giorno dell’anno per capire cosa ne sarebbe stato di loro. È un dramma, soprattutto, per l’intero sistema calcistico italiano che ancora una volta mostra quanto la sua governance sia inadeguata a garantire programmaticità e stabilità all’intero movimento. Un governo del calcio che fino a questa primavera (quando era prossima la promozione della Salernitana nella massima serie) ha nascosto la polvere sotto il tappeto, facendo spallucce a chiunque ponesse il problema delle multiproprietà. Un problema che non ha mai affrontato, postergandolo fino a quando non è stato costretto a farlo. E lo ha affrontato solo a fine settembre nella maniera più semplicistica possibile, tagliando la testa al toro: dal 2024 saranno vietate le multiproprietà. Con buona pace di De Laurentiis, patron sia del Napoli che del Bari, e di Setti, proprietario del Verona e del Mantova, che in questi due anni dovranno affrettarsi a vendere uno dei due club, cancellando anni di investimenti e pianificazioni.

Non solo sarà escluso categoricamente il controllo assoluto della società ma non si potrà neanche avere alcuna partecipazione

Gabriele Gravina, presidente FIGC

Ora la Salernitana è nelle mani dell’imprenditore napoletano Danilo Iervolino che con l’offerta recapitata e accettata dai trustee all’ultimo giro di boa del 2021 ha garantito di fatto la sopravvivenza del club per 45 giorni (i giorni di proroga concessi dalla Federazione per perfezionare l’operazione di acquisto) e poi si vedrà. Tutti contenti dunque? Speriamo di no. Perché aver annullato per sempre le multiproprietà, non ha risolto il problema del calcio italiano. Una governance che ha permesso un’operazione nebulosa (per non scrivere altro), come quella che ha messo il Milan nelle mani di uno sconosciuto Li Yonghong, non può pensare che ora il calcio italiano sia salvo. Dal 1986 sono più di 170 le squadre fallite perché non in grado di sostenere tutti i costi di gestione. L’ultimo caso è quello del Catania che deve riscuotere 600 mila euro entro poche ore, senza i quali verrà escluso dal campionato di Serie C. Le multiproprietà sono ormai una realtà del calcio mondiale e per molti club l’unica àncora di salvezza. Come evidenziato da Paul Conway, numero uno del Pacific Media Group che possiede il Barnsley in Inghilterra, l’Ostenda il Belgio e il Thun in Svizzera, sono quattro gli obiettivi di una multiproprietà: 

sinergia commerciale, nel senso di accordi internazionali e trasversali con gli sponsor, che quindi investono di più, e in mercati diversificati su scala globale; sinergia interna, ovvero la possibilità di avere una dirigenza centralizzata e quindi di ridurre i costi del personale; il vantaggio derivato da quest’ultimo punto, ovvero una maggiore uniformità della strategia tecnica ed economica; infine, un miglioramento delle prestazioni calcistiche dell’azienda.

Una multiproprietà garantisce la sopravvivenza e la ripresa delle squadre, soprattutto piccole, che non hanno più la forza di competere in un sistema privo di liquidità. Emblematico il caso del Salisburgo, squadra austriaca della galassia Red Bull, che pur avendo un potere economico cinque volte inferiore alle potenze europee è una fucina continua di talenti impressionante (Haaland, Mané e Naby Keita sono passati da lì, solo per fare alcuni nomi) e negli ultimi anni sta crescendo non solo il suo palmarès (ha vinto 12 campionati negli ultimi 16 anni), ma anche il suo prestigio internazionale, arrivando pure alle semifinali di Europa League (per saperne di più sul sistema Red Bull, leggi La Redbullizzazione del calcio).

red-bull calcio

Le Multi-Club Ownership (Mco) sono popolari nel calcio perché strumenti utili per diversificare i ricavi e ponderare meglio i rischi. Un altro esempio importante è quello del City Football Group, una holding che ha partecipazioni in sei club nel mondo: Manchester City in Inghilterra, New York City negli Stati Uniti, Melbourne City in Australia, Yokohama Marinos in Giappone, Club Atlético Torque in Uruguay e Girona in Spagna. Deus ex machina è Ferran Soriano, ex top manager del Barcellona a suo tempo allontanato dalla Catalogna, che dal 2012 ha intrapreso un processo di internalizzazione con al centro il Manchester City. Come affermato da Luca Pastore, avvocato italiano nel Regno Unito ed esperto di diritto sportivo internazionale: 

Ha messo in piedi il sistema City finalizzato a creare la prima organizzazione calcistica su scala globale, attraverso un network di club con al centro Manchester. L’obiettivo è aumentare la fanbase, massimizzare i ricavi e aver modo di scovare calciatori e allenatori promettenti in ogni angolo del pianeta. Tutto con una specializzazione che gli altri club non hanno.

Ma anche in casa nostra esistono degli esempi lungimiranti di multiproprietà. Uno su tutti: la gestione della famiglia Pozzo che ha reso per anni l’Udinese un club virtuoso dal punto di vista economico e fucina di talenti di indiscusso valore. Il business model è semplice: comprare calciatori sconosciuti per valorizzarli e rivenderli a un prezzo quintuplicato. Questo dev’essere il mantra del nostro calcio oggi, come dichiarato placidamente anche dall’amministratore delegato dell’Inter, Marotta. 

Il modello italiano deve garantire il player trading. Siamo un campionato di transizione, i campioni non finiscono più la carriera qui. 

Beppe Marotta, amministratore delegato area sport dell’Inter

Il calcio italiano rischia il fallimento. I bilanci del 2021 di Inter (- 245,6 milioni di euro) e Juventus (- 210 milioni di euro) sono la cartina di tornasole. Ma a spaventare di più dovrebbero essere le decine di squadre della B e, soprattutto, della Lega Pro che stanno vivendo una crisi senza precedenti. Il Covid ha certamente accentuato la situazione, ma il problema ha origini lontane. La Lega Pro è il deserto del nostro calcio che per attraversarlo o si ha una bella dose di borracce finanziare o si muore. Nelle serie maggiori le squadre possono usufruire di un fatturato captive, un fatturato che viene dai diritti tv e che garantisce alle piccole squadre di investire nella rosa e anche nelle infrastrutture. Nella Lega Pro seppur le società devono affrontare costi di una realtà professionista, non ricevono  gli stessi investimenti. Oltre al già citato caso Catania, Sambenedettese, Trapani, Pescara, Matera e Pro Piacenza sono altre realtà fallite o sull’orlo di esserlo. Le multiproprietà non sono certo la soluzione, ma con i dovuti limiti potrebbero mettere un freno all’emorragia di club che non riescono a registrarsi al campionato. Perché la prospettiva di avere in media 6 club falliti ogni anno è abbastanza agghiacciante.

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