shackleton endurance calcio
Foto: Frank Hurley

L’impresa di Shackleton

Si cercano uomini per un viaggio pericoloso. Salario modesto, freddo intenso, lunghi mesi di completa oscurità, pericolo costante, ritorno sani e salvi non garantito. Onori e riconoscimenti in caso di successo.

Pare che sia stato questo l’annuncio pubblicato da Ernest Shackleton che diede vita a una delle storie di mare e di uomini più crudeli e affascinanti che si ricordino. Shackleton aveva ricevuto ben 5000 domande per partecipare alla spedizione; ne scelse 27 che il 1º agosto 1914, tre giorni prima che l’Inghilterra dichiarasse guerra alla Germania (Shackleton si offrì di tornare indietro per aiutare lo sforzo bellico britannico, ma gli fu permesso di procedere), salparono da Londra sull’Endurance. Direzione: il continente antartico. Il Polo Sud era stato scoperto dal norvegese Roald Amundsen nel 1911, ma Shackleton, chiamato dai 27 uomini The Boss, decise di fissare un obiettivo più ambizioso. Non voleva solo arrivare al Polo Sud, voleva attraversarlo. Entrare in quella distesa di ghiaccio in cui nessun essere umano aveva mai messo piede. Il nome di quell’impresa? Imperial Trans-Antartic Expedition, la spedizione destinata a rivendicare, a nome della Gran Bretagna, terreni di quella regione fino ad allora sconosciuti. La proposta fu derisa da Winston Churchill, all’epoca primo Lord dell’Ammiragliato. “Sono stati spesi abbastanza soldi per questa sterile ricerca” disse, “Il Polo è già stato scoperto”. Shackleton rispose che: “la morte è una cosa molto piccola e la conoscenza molto grande … e in realtà Regents Street contiene più pericoli dei 5 milioni di miglia quadrate che costituiscono il continente antartico.”

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Foto: Frank Hurley

Dopo un viaggio di mesi, nel gennaio del 1915 l’Endurance raggiunse il mare di Weddell e il dramma ebbe inizio. Rimasero bloccati fra i ghiacci senza nessuna possibilità di proseguire. Shackleton allestì un campo, e per mesi lui e i suoi uomini aspettarono nella speranza che il ghiaccio si sciogliesse e liberasse la nave. Organizzarono delle partite di calcio, un modo per scaldarsi – la temperatura in quei giorni oscillava tra i -22 e i -45 gradi – e per evitare che la depressione li divorasse. Tutto l’equipaggio s’impegnò addirittura ad appiattire il ghiaccio pur di creare il campo di gioco. Durante quel riposo forzato Frank Hurley, noto fotografo australiano che seguì la spedizione, scattò alcune fotografie in controluce della neve e delle partite. Quelle fotografie saranno un’eredità drammatica nella storia dell’esplorazione polare del XX secolo.

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Foto: Frank Hurley

Passarono nove mesi in attesa, e con il tempo le speranze iniziarono a scemare. In ottobre il ghiaccio ruppe definitivamente lo scafo dell’Endurance che iniziò ad affondare. Tutto l’equipaggio abbandonò la nave e rimase bloccato su quella vasta lastra di ghiaccio. Buio pesto, gelo e paura. Non c’era nient’altro intorno a loro. Era il momento di prendere decisioni difficili e necessarie, come sparare ai cani da slitta e alla gatta della nave, Mrs Chippy, che l’equipaggio aveva allevato amorevolmente per più di un anno; non erano più in grado di resistere in quel contesto ed erano ormai diventati l’unica fonte di sopravvivenza. Era tutto talmente forte da sembrare onirico. La luce del sole che a fatica e di malavoglia si affacciava per qualche ora, e il freddo che ormai era scolpito nelle loro ossa. Quegli uomini stavano vivendo una trasformazione liminale: erano partiti esploratori dell’impero britannico, simbolo della massima civiltà del tempo, ma lì erano entità private giorno dopo giorno di ogni sembianza umana. Sembravano vittime di un maleficio, pedine dell’eterna partita tra la Morte e la Vita-in-Morte, come ne La ballata del vecchio marinaio di Coleridge. Restava loro solo la fratellanza, quello spirito di unità che alla fine li spinse a prendere la decisione di non mollare e trovare una via di salvezza. 

Endurance Frank Hurley
Frank Hurley scattò le foto dell’Endurance nel buio pesto grazie a dei fari in grado di creare dei fasci di luce abbacinante

Decisero di raggiungere l’isola di Paulet dove sapevano esserci un deposito di viveri; era lontana 346 miglia. Si liberarono del superfluo. The Boss diede l’esempio gettando un portasigarette d’oro. Con solo il necessario salirono sulle tre scialuppe rimaste disponibili e si lasciarono trascinare sul ghiaccio grazie ai pattini. Le condizioni degli uomini erano sempre più misere, sia dal punto di vista psicologico che fisico. Il 15 aprile, dopo quasi due anni dalla loro partenza dall’Inghilterra, raggiunsero Elephant Island. Terra finalmente! Ma l’isola era completamente deserta e inospitale. Un facile entusiasmo subito smorzato che li costrinse a prendere un’altra decisione difficile: un gruppo ristretto avrebbe tentato un’ultima disperata azione. Salpando su una delle tre scialuppe, la James Caird, dal nome di uno dei finanziatori della spedizione, tentarono di arrivare nella Georgia del Sud, più lontana dalle Falkland, ma più “facile” da raggiungere per il gioco delle correnti e dei venti dominanti. Era una traversata folle, con pochissime possibilità di successo. Non solo si trattava di una barca senza coperta, ma era una barca senza coperta tenuta in equilibrio con dei sassi in uno dei mari più pericolosi del mondo, con onde di 15 metri e più (il doppio di quella barchetta). Ma non avevano altra scelta. 

Freddo. Freddissimo! C’è sempre brutto tempo, mare grosso, tira un gran vento e il ghiaccio è dappertutto. Quella di Shack è un’impresa per noi impensabile: figuriamoci per lui, con l’attrezzatura dell’epoca, senza poter comunicare, né capire la strada da prendere. Là, poi, il paesaggio è allucinante: non vedi mai il sole e questo è un altro bel problema. Si fa questa rotta – da Ovest a Est – perché i venti dominanti soffiano da Ovest: è la via più facile, sempre che si possa usare questo aggettivo…

Giovanni Soldini
shackleton endurance
Foto: Frank Hurley

Raggiunsero la Georgia del Sud. Due giorni per trovare un approdo per poi scoprire che lì a Baia di Re Haakon il viaggio non era ancora finito. Erano sbarcati dalla parte disabitata dell’isola; dovevano raggiungere l’altro lato. Nel mezzo: montagne ghiacciate mai arrampicate da essere umano. 

Tutta quell’impresa, sempre ai limiti della sopravvivenza, è straordinaria, ma anche la sua conclusione, di per sé, ha dell’incredibile. La traversata della Georgia del Sud, fra montagne sconosciute e senza mezzi, dopo aver trascorso un anno ai confini fra la vita e la morte, sfibrati da 16 giorni di traversata su una piccola barca, è un’impresa eccezionale. Sono andato nel 2000 a ripeterla, per rendermi conto di persona, e devo dire che ha proprio un valore alpinistico. Dovettero superare 4 passi fra i 1000 e i 2000 metri, inframmezzati da ghiacciai, di cui uno veramente pericoloso: tutto un crepaccio. In un ambiente proibitivo, Shack seppe trovare la via, in 36 ore di cammino continuato. Io, Steven Venables, primo a salire la parete Est dell’Everest, e Conrad Anker, colui che ha trovato sulla Nord dell’Everest il cadavere di Mallory, abbiamo fatto uso di corde, piccozze e abbiamo pure bivaccato. Loro, che non erano alpinisti, fecero tutta una tirata e, ripeto, senza attrezzature specifiche. Forse c’era molta più neve, infatti Shack parla di una discesa di 400 metri fatta scivolando sul sedere e lì noi abbiamo trovato rocce affioranti, ma comunque tanto di cappello!

Reinhold Messner

Alle 4 del pomeriggio del 20 maggio 1916 tre uomini scheletrici, denutriti, assetati, bagnati dalla testa ai piedi, con capelli, barba e unghie lunghe, che si reggevano in piedi a fatica, raggiunsero Nansen (oggi Stromness) nella Georgia del Sud. Si avvicinarono ad un baleniere e quello che sembrava essere il capo domandò: “Non mi riconosce?” – “Riconosco la vostra voce, ma non saprei…” rispose il baleniere. “Sono Ernest Shackleton“, disse l’uomo.

Shackleton tornò a Elephant Island il 30 agosto sul rimorchiatore oceanico cileno Yelcho e recuperò tutti i suoi uomini, che erano rimasti lì per mesi in attesa del suo arrivo, mangiando carne di pinguino e foca. Erano partiti in 28 e nonostante la fame, il freddo e la solitudine durati 2 anni tornarono a casa tutti salvi.

Dopo Shackleton l’Antartide è diventato sempre più familiare al punto che oggi al termine dell’estate australe, all’estremità più settentrionale della penisola Antartica, sull’Isola di Re Giorgio, si gioca El Clasico, la partita tra i componenti della base scientifica cilena e una selezione composta da turisti e componenti delle stazioni di ricerca di altri Stati, tra cui Argentina, Russia e Cina. Il campo ovviamente è artigianale: le reti verdi utilizzate dalle stazioncine aeree per permettere ai velivoli di atterrare sono utilizzate come porte; il perimetro è delimitato da corde elastiche; e gli angoli sono identificati da quattro bastoni con una bandierina cilena. C’è anche un igloo che funge da spogliatoio, e il match dura 20 minuti per tempo. L’ultimo Clasico ha visto trionfare la selezione cilena, con tanto di festeggiamenti su uno spazzaneve.

È un modo originale per omaggiare la resistenza e il coraggio di quei 28 uomini dell’Endurance che soli e sperduti nel gelo antartico hanno trovato la via di casa. Apsley Cherry-Garrard nel suo libro Il peggior viaggio del mondo scrisse: “Per organizzare un lavoro congiunto di tipo scientifico e geografico, datemi Scott; per un viaggio d’inverno, Wilson; per una capatina al Polo e nient’altro, Amundsen; ma se mi trovo in un dannato buco e voglio uscirne, datemi Shackleton tutte le volte.​​

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