ruskin park
Foto: Richard Baker/Getty Images

South London, la patria dei campioni

Spesso lo sport nasconde un altro volto che parla di inclusività e nuove possibilità, e lo fa senza forzature in un modo del tutto naturale. È quello che è successo a South London che negli ultimi decenni è stata la patria di squadre di calcio che hanno fatto dell’integrazione il loro tratto distintivo. In quest’area della capitale inglese i calciatori neri sono diventati il simbolo di una società in lento ma costante cambiamento. Come una comunità venga a radunarsi in una strada, in un borgo, in una città spesso non è scritto. Queste storie si trovano nel folklore familiare, in storie orali che non raggiungono mai documenti ufficiali. E così, sebbene non vi sia una ragione definitiva sul motivo per cui le comunità nere si siano spostate a sud fino a Lewisham, alcuni studi mostrano come le prime comunità nere hanno iniziato a popolare la zona intorno agli anni Sessanta alla ricerca di lavoro negli ospedali e tra le linee ferroviarie.

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Foto: Richard Baker/Getty Images

Anche David Rocastle e Ian Wright nascevano da questa prima generazione di immigrati e per diventare ben presto i capostipiti di quel processo che avrebbe portato South London a diventare una vera e propria fabbrica di campioni afro-britannici. Molti emigrati africani erano estranei in quel nuovo Paese, diffidavano dell’ostilità di alcune aree londinesi, ma parlavano correntemente la lingua universale del calcio. Per loro, per i ragazzi in particolar modo, Rocastle e Wright divennero ben presto fonte di orgoglio, dei modelli da imitare; divennero anche i protagonisti di storie, a volte, molto fantasiose. Le generazioni di famiglie africane e caraibiche cresciute nelle antiche tradizioni di un nuovo Paese con il tempo si sono lentamente ritagliati una propria identità. South London è più che una semplice zona della capitale britannica; è diventata un mondo intero, una patria in cui questa dualità trova modo di esistere e di esprimersi, anche attraverso il calcio. 

Nel 1999 è nata la Hillfields FC, destinata a diventare una squadra leggendaria, palestra di grandi campioni del calcio inglese e internazionale: Wilfried Zaha, Nathaniel Clyne, Wayne Routledge, Victor Moses e tanti altri cominciarono proprio qui la loro carriera. Hilly Fields è un ampio parco scolpito nell’espansione residenziale, assediato da file di abitazioni vittoriane e a schiera. Per citare il giornalista Aniefiok Ekpoudom:

È il gioiello di una città di cemento, elevata a 175 piedi sul livello del mare. Dal nostro Everest puoi guardare in basso verso i grattacieli dello skyline della città e vedere le montagne d’acciaio che si innalzano dalla terra, luccicanti lungo una costa rivestita di pannelli di vetro.

Ma quello che rendeva il calcio speciale a South London era il fortissimo legame che legava le istituzioni più importanti, il Crystal Palace su tutti, e la comunità locale. I reclutatori, infatti, frequentavano spesso le scuole locali alla ricerca di nuovi talenti da far crescere e a cui offrire un’opportunità unica. E, spesso, ci riuscivano. Ogni generazione ha avuto il suo campione, destinato a diventare un punto di riferimento per la comunità. Ian Wright lasciò il posto a Rio Ferdinand, con i suoi profondi legami con Peckham e la sua incoronazione come uno dei migliori difensori centrali della storia britannica. Quando Ferdinand si è ritirato nel 2015, la corona è stata affidata a Wilfried Zaha e alla sua generazione.

Wilfried Zaha
Wilfried Zaha, simbolo della nuova generazione di ragazzi cresciuti a Hilly Fields

Per quest’ultimo, va fatta una menzione speciale. Originario della Costa d’Avorio, fin da giovanissimo si era fatto notare come uno dei campioni più promettenti dell’Inghilterra, ma nel 2016 sconcertò tutti decidendo di abbandonare la nazionale inglese per la sua patria africana. I commenti ostili che derivarono da questa decisione hanno messo in luce un aspetto fondamentale della storia del calcio a South London: la doppia identità di questi campioni. Nati in Inghilterra ma di tradizione africana, tutti questi calciatori sono accomunati da un’identità scissa che si è manifestata nella necessità improvvisa di giocare nella squadra della propria nazione d’origine, anche se, in alcune circostanze, gli stessi calciatori la conoscono soltanto attraverso i racconti dei familiari.

Esiste un sottile malinteso sui bambini con doppia eredità, un’incapacità di riconoscere il mutevole senso di casa che può esistere per quelli come Zaha. Per molti immigrati di prima e seconda generazione i cui genitori o nonni hanno trovato una nuova casa in Gran Bretagna, le cui recenti linee familiari sono scaglionate attraverso i continenti, “il desiderio intrinseco di voler giocare per il proprio paese“, come dichiarato dall’allenatore dell’Inghilterra, Gareth Southgate, può creare disagio e acuire delle tensioni. Le passioni sono divise, le identità sfilacciate. L’educazione è stata britannica, ma le loro famiglie provengono da Paesi lontani, portano le loro storie nei loro cognomi. La questione della nazionalità è complessa.

Nati in Inghilterra ma di tradizione africana, tutti questi calciatori sono accomunati da un’identità scissa che si è manifestata nella necessità improvvisa di giocare nella squadra della propria nazione d’origine, anche se, in alcune circostanze, gli stessi calciatori la conoscono soltanto attraverso i racconti dei familiari. 

La storia dei calciatori neri di South London ha dimostrato nel corso degli anni, però, che il vero successo non dipende soltanto dal talento dei singoli, ma da una commistione di elementi come la fortuna, il tempismo e la razionalità. Dopo vittorie e successi, quasi tutti questi campioni oggi fanno parte di squadre di categorie inferiori e hanno perso quell’allure da supereroi che li aveva caratterizzati all’inizio della loro carriera. Tuttavia, rimangono il simbolo di un mondo nel quale è possibile sentirsi liberi di vivere la propria identità, nel quale ci si può sentire a casa e nel quale i sogni si avverano: il mondo di South London.

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