sudafrica 1996

The Rainbow Nation e il Sudafrica post Apartheid

26 anni fa il calcio sudafricano usciva dalle townships per convertirsi in uno strumento di riconciliazione nazionale

Il conto alla rovescia è terminato.
Nelle prossime tre settimane le principali nazioni del calcio in Africa benediranno il Sudafrica liberato con la migliore dimostrazione di abilità che il nostro continente può offrire.
Milioni di appassionati di calcio in tutto il continente e oltre, si uniranno a noi in questo festival dell’amicizia africana. A nome di tutti i sudafricani, do il benvenuto a tutti voi.
Abbracciamo i nostri fratelli e sorelle in tutto il continente, che saranno con noi nello spirito durante questo periodo emozionante.
La decisione della Confederazione del calcio africano di organizzare la ventesima edizione della Coppa delle Nazioni in Sud Africa è il miglior regalo che l’Africa possa fare alla nostra comunità sportiva e, in particolare, alla confraternita del calcio.
Per questo vi ringraziamo dal profondo del cuore. State ancora una volta affermando che la nostra giovane democrazia ha trovato una nicchia all’interno della famiglia delle nazioni africane per imparare e dare il suo massimo contributo.
Il calcio è una delle discipline sportive in cui l’Africa sta emergendo per dimostrare la sua eccellenza, per troppo tempo latente nel suo grembo. Siamo certi che questo torneo, con la sua abilità artistica, il suo spirito sportivo e organizzativo, giustifichi la fiducia che la FIFA ripone nel nostro continente. Il suo successo si misurerà non solo nel numero di gol segnati: ma anche nel modo in cui avvicina le nostre nazioni, mentre i nostri giovani di talento aggiungono un altro mattone all’edificio del rinascimento dell’Africa.
Ora è mio privilegio dichiararlo, il torneo della Coppa d’Africa 1996 è aperto.

Pochi minuti prima del celebre e ispirato discorso che Nelson Mandela avrebbe indirizzato alla Nazione arcobaleno, al continente nero e al mondo intero, i Bafana Bafana si trovavano intrappolati dentro il loro autobus, circondati dalla folla assiepata nei dintorni di Ellis Park. La partita d’esordio contro i Leoni Indomabili del Camerun era ormai alle porte e la nazionale sudafricana rischiava il deferimento per non essersi presentata in tempo per registrarsi presso le autorità della CAF (Confederazione Africana di Calcio). La situazione era surreale, a nulla servirono le sirene blu delle macchine della polizia che fino a lì avevano scortato la nazionale in una Johannesburg deserta. L’intero Sudafrica era rimasto incollato alla tv per ascoltare Madiba e sentirsi finalmente riconosciuto dal mondo. Chi non era rimasto a casa cercava a tutti i costi un’entrata nello stadio, ormai esaurito. Nel mezzo del caos, Tovey e compagni dovettero scendere dal bus e farsi gli ultimi metri a piedi, scortati dagli agenti che faticavano a creare un varco in mezzo alla folla.

sudafrica calcio 1996

26 anni fa il calcio sudafricano usciva dalle townships per convertirsi in uno strumento di riconciliazione nazionale. Erano ancora lontani gli echi delle vuvuzelas e del waka waka che nel 2010 avrebbero donato simboli, suoni e colori al primo mondiale di calcio in Africa. Il Sudafrica del 1996 era un Paese bramoso di pace, unità e voglia di tornare al mondo. Erano trascorsi meno di due anni dalla vittoria elettorale dell’ANC di Mandela, che sanciva la fine definitiva del regime dell’Apartheid durato più di quarant’anni. 

C’era una volta il Sudafrica della segregazione razziale, il paese dove il 9% della popolazione bianca afrikaneer, boera e inglese constringeva il restante 91% a vivere una vita parallela e priva di diritti. Per raccontare il regime di segregazione razziale basterebbe enunciare le sue leggi più importanti: il Population Ragistration Act e l’Immortality Amendement ActLa prima legge disciplinava il diritto di cittadinanza sulla base di una classificazione razziale (bianca, africana, meticcia e indiana), mentre la seconda permetteva alle forze dell’ordine di irrompere nelle case per monitorare che non vi fossero relazioni sessuali tra persone di razza bianca e quelle di colore. Il regime dell’Apartheid prevedeva una segregazione spaziale, sociale ed educativa con frontiere e check point nei punti d’accesso alle townships, negli uffici, sui mezzi di trasporto, nelle scuole e persino nei bagni pubblici. Repressione, uso della forza e discriminazione erano gli strumenti utili al mantenimento dello status quo

apartheid

Ne sapeva qualcosa Nelson Mandela che pagò con 27 anni di reclusione le sue lotte per un Sudafrica senza barriere razziali. È a partire da lui che nel 1991 iniziò il cammino che portò alla progressiva abrogazione delle leggi simbolo dell’Apartheid. Per il suo esempio, Mandela fu insignito nel 1993 del Nobel per la pace. Divenuto presidente di una nazione in cerca di identità e coesione, Madiba –insieme a personalità importanti come il premio nobel per la pace, l’Arcivescovo Desmond Tutu – istituì una commissione per la Verità e Riconciliazione del Sudafrica. Nell’ora più intima e drammatica del nuovo e ferito Paese, diventava necessario dare un volto e delle risposte ai crimini commessi. 

A fianco dei modelli di giustizia retributiva e delle amnistie, la neonata commissione puntò sulla Restorative Justice, la giustizia che unisce i perpetratori con le vittime in una full disclosure che è dialogo, riparazione ed emersione delle verità – anche le più insostenibili e insopportabili – utili alla costituzione di un futuro migliore. Ma la verità e il perdono da sole non bastavano a creare la nazione arcobaleno: c’era bisogno di gioia, speranza e tanto sport; quest’ultimo di ritorno dopo anni di divieti e sanzioni imposte dalla comunità internazionale. 

Ma la verità e il perdono da sole non bastavano a creare la nazione arcobaleno: c’era bisogno di gioia, speranza e tanto sport; quest’ultimo di ritorno dopo anni di divieti e sanzioni imposte dalla comunità internazionale. 

Ciò che è successo in Sudafrica tra il 1995 e il 1996 ha dell’incredibile e del miracoloso. Nel giro di due anni il Paese si trovò a ospitare sia il Mondiale di rugby che la Coppa d’Africa, un’occasione unica per mostrare al mondo il nuovo Sudafrica. Il mondiale di rugby – il terzo della storia e il primo interamente disputato in un solo Paese – fu il primo vero banco di prova per la nazionale sudafricana, al suo esordio assoluto nella manifestazione. Gli Springbocks furono i protagonisti di un incredibile torneo culminato con la finale contro gli All Blacks, i marziani maori trascinati dal leggendario e mai dimenticato John Lomu. Il 24 giugno del 1995, in un Ellis Park dipinto di verde, il Sudafrica batteva ai supplementari la Nuova Zelanda conquistando la coppa del mondo rugby. 

mandela pienaar
Mandela consegna la Coppa del Mondo vinta al capitano Pienaar

Il trionfo del rugby metteva pressione al mondo del calcio, lo sport popolare connesso con le townships e la popolazione di colore. Mandela sapeva che la Coppa d’Africa sarebbe stata ben altra cosa rispetto al già difficile mondiale di rugby: il calcio africano stava vivendo un’epoca d’oro e, di lì a poco, in Sudafrica sarebbero giunte delle vere e proprie corazzate.  C’erano le Super aquile nigeriane guidate da Okocha, Amokachi, Amunike e Yekini (la Nigeria non prenderà parte al torneo per questioni di sicurezza), la generazione d’oro del Camerun, le solida Tunisia, lo Zambia di Kalusha Bwalya, il Ghana del duo Pelè – Yeboah, e la Liberia di Wreh, Debbah e capitan George Weah, Pallone d’oro in carica. In pochi conoscevano il Sudafrica di Barker, squadra per lo più di colore con solo tre giocatori afrikaneer nell’undici titolare: il capitan Tovey, il difensore Mark Fish (che giorcherà successivamente nella Lazio) e il centrocampista Tinkler.

Una situazione diametralmente opposta a quella dei fratelli del rugby e anche questo era un segnale da offrire al mondo. Pur essendo il Paese ospitante, il Sudafrica venne inserito in un girone di ferro con Camerun, Egitto e Angola. Tutte le partite di questo gruppo furono disputate a Johannesburg, città nota per la sua township di Soweto, la più grande e violenta baraccopoli del Paese. L’Italia scopriva la bellezza di questa competizione grazie alle dirette della Telemontecarlo e le telecronache di Massimo Caputi e Giacomo Bulgarelli. 

sudafrica 1996

Scesi dal bus intrappolato nella marea umana antistante lo stadio, i Bafana Bafana si preparavano a sfidare la nazionale più forte del continente, la stessa incontrata quattro anni prima nell’amichevole che riportò il calcio internazionale in Sudafrica. Nel giorno della riscossa nazionale, i padroni di casa strapazzarono il Camerun con un secco 3-0 davanti a 75mila anime in festa e un Paese ebbro di felicità. Il mondo guardava con stupore le cavalcate del bomber Phil Masinga e dei compagni di reparto Mosheou e Williams. Nella partita successiva, il Sudafrica strappò il pass per il secondo turno vincendo di misura contro l’Angola, grazie alla rete del bomber Williams.Due vittorie in due partite permisero all’allenatore Barker di applicare il turnover per l’ultima partita del girone persa contro l’Egitto. 

Con l’arrivo della fase a eliminazione diretta crebbe l’attesa e la speranza che i Bafana Bafana potessero arrivare fino in fondo al torneo. Un gruppo di giocatori per lo più sconosciuti al mondo intero si ritrovava al centro della storia. Nonostante l’enorme pressione, il Sudafrica riuscì a imporsi sull’Algeria con un 2-1 firmato Fish e Mosheu. Con l’accesso alle semifinali i giornali internazionali cominciarono a tracciare i profili della nazionale dalla divisa bianco, nero e oro soffermandosi sul portiere Arendse, il monumento Radebe, il talentuoso Fish, i guerrieri Tovey, Tinkler, Buthelezi, Doctor Khumalu e le schegge Bartlett, Masinga, Moshoeu e Williams. 

Nella semifinale di Johannesburg i Bafana Bafana si trovarono di fronte al favoritissimo Ghana e, come all’esordio contro il Camerun, riuscirono a sovvertire il pronostico della vigilia vincendo con un sonoro 3-0 frutto della doppietta di Moshoeu e il gol dell’onnipresente Williams. L’ ultimo ostacolo tra il Sudafrica e la gloria era rappresentato dalla Tunisia di Ben Slimane.  Nonostante l’inizio in salita segnato dal pareggio contro il Mozambico e la sconfitta contro il Ghana, le Aquile di Cartagine erano riuscite a riprendere la via della vittoria arrivando con merito alla finale di Johannesburg.

Questa volta Mandela si strinse attorno ai suoi ragazzi nell’intimità dello spogliatoio che li preservava dagli 80mila spettatori presenti allo stadio e dai 43 milioni di sudafricani incollati alla televisione. La partita spigolosa, tiratissima e destinata a scivolare verso i rigori fu decisa dall’uomo della provvidenza Mark Williams, partito dalla panchina per realizzare la storica  doppietta che consacrò la Rainbow Nation

Si ripeteva la scena del trionfo e delirio collettivo visti pochi mesi prima con il rugby. Due miracoli sportivi in due anni per il Paese che ambiva a trasformare la polvere e la miseria in riconciliazione e speranza.

 

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