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Il coraggio di chiedere aiuto: la salute mentale nello sport agonistico

La salute mentale è un tema sempre più discusso anche nell’ambiente sportivo. Sebbene per molti si tratti ancora di uno stigma, sempre più atleti professionisti si aprono e dichiarano pubblicamente di soffrire di disturbi quali depressione e ansia. Soprattutto dopo i lockdown, che dalla comparsa del Covid 19 nel 2020 hanno caratterizzato la vita di tutti indipendentemente dall’estrazione sociale e dalla professione, è stato riscontrato un incremento esorbitante dei disturbi mentali tra la popolazione. È per questo, insieme a numerose altre motivazioni, che sembra essersi diffusa tra gli atleti professionisti che ne soffrono la volontà di normalizzare il fatto che disturbi come la depressione, l’ansia e i disturbi alimentari possano colpire chiunque.

La figura dell’atleta è stata per lungo tempo circondata da un’aura quasi mitica: uomini e donne dotati di qualità sovrumane, in grado di spingere il proprio corpo oltre i limiti concessi al resto della popolazione mondiale grazie, soprattutto, a una rigida di disciplina e ad un mindset impostato sulla performance e sulla ricerca del massimo. Tutti noi spettatori abbiamo recentemente scoperto che non è così. Gli atleti, come loro stessi si stanno impegnando a mostrare, sono esseri umani e come tali sono soggetti alle conseguenze di una vita stressante, fisicamente ed emotivamente, e di aspettative enormi da parte del pubblico e, soprattutto, delle società per cui gareggiano. Il rischio di vedere compromessa la propria salute mentale è altissimo.

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Pioniere di questa campagna di consapevolezza e normalizzazione è Michael Phelps, nuotatore pluripremiato con ben 28 medaglie conquistate nel corso della sua carriera. Nel 2016, alla vigilia, delle Olimpiadi di Rio, Phelps ha dichiarato di soffrire di depressione dal 2004 e ancora oggi si impegna attivamente, attraverso la sua comunicazione, affinché chiunque soffra di questo disturbo non si senta solo. Il campione ha ammesso di avere avuto frequenti episodi di grave depressione soprattutto nel post-Olimpiadi. Dopo mesi di allenamenti estenuanti, nei quali la pressione del mondo esterno è fortissima e si è costretti ad andare oltre qualsiasi limite, si conquista l’oro e si torna a casa dove ad aspettarlo c’è solo il vuoto e l’angoscia. Una condizione da cui, secondo Phelps, non si può mai uscire, ma che si può riconoscere. La consapevolezza che va bene sentirsi “vuoto” è stata per Phelps motivo di grande riscatto e, oggi, il suo obiettivo è quello di normalizzare questo disturbo e di spingere chi ne soffre a non vergognarsi e a chiedere aiuto.

Ma la lista dei campioni che hanno pubblicamente dichiarato di soffrire di svariati disturbi mentali è molto lunga. Recentemente, la tennista Naomi Osaka, dopo aver rifiutato di partecipare ad una conferenza stampa in occasione degli Open di Francia, ha deciso di ritirarsi dalla competizione. A detta della campionessa, le domande dei giornalisti prima della gara sono per lei fonte di stress e agitazione e le causerebbero svariati disagi psicologici ed emotivi. La lista continua con Simone Biles, la ginnasta statunitense che ha deciso di interrompere la sua partecipazione alle Olimpiadi perché la pressione e lo stress erano diventate insostenibili, scegliendo così di preservare la sua salute mentale. E poi Federica Pellegrini, Kevin Love, Héctor Bellerín, Gigi Buffon e tanti altri.

Quando combattevo la depressione, il momento migliore della giornata era quando prendevo le pillole e andavo a letto. Avevo perso la voglia di vivere; abbracciavo mia moglie, ma era come abbracciare un cuscino: non provavo niente. Continuo ad andare in terapia perché ho bisogno di controllarmi. Sono felice quando gli sportivi e i professionisti parlano di malattie mentali e depressione. Col tempo, la vita ti insegna che la depressione e le malattie mentali possono colpire chiunque.A prescindere dai beni materiali. Posso avere tutte le auto del mondo e tutto ciò che voglio, ma è comunque difficile affrontare i problemi della vita.

Andrès Iniesta
Naomi Osaka depressione
Naomi Osaka

Studi scientifici hanno dimostrato come gli atleti professionisti corrano un rischio di soffrire di disturbi mentali di gran lunga maggiore rispetto al resto della popolazione. Lo sport agonistico non solo richiede uno sforzo fisico unico rispetto a qualsiasi altro lavoro, ma pretende anche un enorme sforzo mentale ed emotivo. Un atleta professionista deve allenare, oltre che il corpo, anche la concentrazione e la precisione, deve fare scelte complesse in poco tempo e ricordare a memoria molte cose contemporaneamente. Dal punto di vista emotivo deve far fronte alla pressione di sponsor, allenatori, compagni di squadra e fans, oltre che alle proprie aspettative. Se questi fattori erano validi anche in passato, negli ultimi decenni l’avvento dei social media ha aggiunto un’ulteriore fonte di stress. Essere costantemente sotto lo sguardo del mondo, oggi significa anche leggere i commenti, non sempre piacevoli o costruttivi, dei followers che possono peggiorare un equilibrio mentale già messo a dura prova dai fattori precedentemente elencati. Anche le organizzazioni sportive possono fungere da trigger per gli atleti. In molti, infatti, hanno dichiarato di considerare più stressante la parte organizzativa della propria disciplina sportiva, rispetto ai durissimi allenamenti. Negli sport di squadra si inserisce un ulteriore fattore, legato ai rapporti con gli altri membri del team. Rapporti obbligati da contratti lavorativi che non sempre risultano idilliaci. Nel mondo dello sport femminile si possono riscontrare anche ulteriori fattori di trigger come molestie e sessualizzazione dei corpi delle atlete che, in molti casi, hanno contribuito a peggiorare una salute mentale già a rischio.

Essere costantemente sotto lo sguardo del mondo, oggi significa anche leggere i commenti, non sempre piacevoli o costruttivi, dei followers che possono peggiorare un equilibrio mentale già messo a dura prova.

Ci sono però alcune modalità che, se messe in atto, possono contribuire a migliorare la situazione. Per prima cosa, all’interno del team, sarebbe opportuno lasciare all’atleta una più ampia libertà decisionale in merito a orari carico di allenamenti e recupero. Vedendo la propria opinione tenuta in considerazione, l’atleta sentirà di avere ancora il controllo della sua vita e del suo lavoro. Poi, è importante che le società sportive forniscano un sostegno piscologico costante per intercettare il prima possibile eventuali disagi. I compagni di squadra che abbiano intercettato un malessere in uno dei compagni dovrebbero essere disposti all’ascolto, alla condivisione di esperienze e al supporto reciproco; così come i fan e gli spettatori, dovrebbero considerare i propri atleti del cuore per quello che sono: esseri umani, dotati di fragilità e sofferenze per cui, spesso, una parola gentile e un complimento possono fare la differenza. Infine, riprendendo le parole di Phelps, gli atleti non dovrebbero vergognarsi. La depressione, l’ansia, i disturbi alimentari e tutti i disturbi mentali non sono un taboo. Possono essere curati, possono essere affrontati e sconfitti. Bisogna solo trovare il coraggio di chiedere aiuto.

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