calcio noia
Tifosi giapponesi dormono sugli spalti durante una partita dei mondiali

Il calcio sta annoiando

Il mondiale in Qatar si è concluso tra sorprese meravigliose (l’exploit del Marocco) e polemiche infinite. Ma a campionato appena  concluso, la domanda sorge spontanea: cosa ci rimane? Personalmente, un forte senso di disagio e disgusto. Parafrasando l’eurodeputata verde Hannah Neumann, siamo stati nel mezzo di una scena del crimine, se pensiamo ai circa 6000 lavoratori morti per mettere su questo spettacolo. Un’oscenità sui cui nessuno ha osato protestare, ad eccezione di qualche circoscritta contestazione

La regione araba ha la sua cultura calcistica, che potrebbe essere rafforzata con una Coppa del Mondo. Il Marocco ha chiesto di ospitare il mondiale cinque volte. Ma la Fifa li ha scavalcati e ha assegnato il torneo al Qatar, dove il calcio è visto come uno strumento politico. Il denaro governa il mondo. I responsabili di Fifa e Uefa hanno troppo spesso anteposto il guadagno individuale al bene comune. Non c’è niente di sbagliato nel calcio in sé. Ma le persone che lo governano, lo gestiscono e lo commercializzano ne stanno sperperando la gioia illimitata.

Philipp Lahm

In questo raccapricciante contesto, rimanendo sul tema prettamente sportivo (non senza fatica), i mondiali in Qatar hanno confermato l’idea che ho maturato da un po’: il calcio è noioso. Pochi lampi, poche giocate da lasciarti a bocca aperta, nulla lasciato alla fantasia ma tutto in mano a fraseggi sterili, giocando di rimessa nell’attesa dell’errore dell’avversario. Siamo, del resto, nell’era del gegenpressing: giocate singole carenti a favore di un’intesa corale soporifera. Non è un caso che la maggior parte delle partite del mondiale nella prima mezz’ora di gioco abbiano registrato pochissime emozioni con statistiche sulle occasioni da gol molto basse, salvo poi accelerarsi quando una delle due squadre doveva giocarsi il tutto per tutto. E non è un caso che diverse partite dagli ottavi in poi si siano risolte ai rigori. La maggior parte delle squadre gioca a specchio, cercando di annullare l’avversario invece di cercare il rischio, l’azzardo, ovvero l’anima adrenalinica di qualsiasi sport. David Foster Wallace scriveva che la bellezza non è l’obiettivo degli sport agonistici, ma gli sport di alto livello sono un luogo privilegiato per l’espressione della bellezza umana. Nel calcio di oggi non c’è bellezza, a meno che non si consideri tale la fredda organizzazione tattica. Il calcio è diventato una versione animata del calcio balilla. Viviamo nell’era della tecnica, che per dirla come Umberto Galimberti: “è la forma più alta di razionalità mai raggiunta dall’uomo […] non c’è niente che vuole, tranne se stessa“.

calcio noia
Tifosi giapponesi dormono sugli spalti durante una partita dei mondiali

Il calcio nella sua smania di perfezionamento ha posto alla base del suo sviluppo l’efficienza delle tecniche di allenamento, dello studio degli avversari e dei giocatori, e il potenziamento fisico di quest’ultimi in nome della perfomance. È in dubbio che i professionisti di oggi siano più resistenti, più atletici, più forti mentalmente del passato. Giocare 50 partite l’anno, seguiti da giornalisti, insider e telecamere anche fuori dal campo ha reso i calciatori delle macchine. La loro specificità è nella perfezione del corpo e non nella qualità tecnica. Stiamo parlando di un’evoluzione che ha reso universale la bellezza cinestetica (intesa come capacità di gestire il proprio corpo e la palla tramite un sistema complesso e molto rapido di compiti) a svantaggio di quella che potremmo definire bellezza creativa. Dall’improvvisazione alla programmazione.

E l’eziologia di questa trasformazione coinvolge anche il modo in cui abbiamo imparato a “godere” di tutto questo. L’evoluzione tecnologica degli ultimi anni ha enfatizzato il passaggio da un calcio naïve ad uno performante. Il senso cinestetico è apprezzabile pienamente solo dal vivo: è quasi impossibile poter comprendere la forza di un tiro, l’accelerazione di un calciatore, i riflessi di un portiere  tramite il filtro delle telecamere. Ogni sport è tridimensionale, come ci ha spiegato sempre Wallace, ma noi attraverso la televisione lo viviamo bidimensionale. Questa mancanza è compensata dall’illusione di intimità che la televisione ci offre. Un’intimità distorta perché pretende di offrirci una visione completa a discapito dell’essenza stessa di questo nuovo calcio (tecnocalcio): la pura e semplice fisicità dei giocatori. L’intimità è distorta anche perché manipolata da una figura sempre più centrale nel tecnocalcio: il telecronista. Indipendentemente dal proprio stile (prolisso, enfatico o didascalico) il cronista influisce sulla percezione che abbiamo della partita, di fatto monopolizzandola. Non più un elemento di supporto alla visione della partita, ma elemento centrale che a volte, come nel caso Adani, la rende secondaria.

adani mondiali
Lo show di Adani durante l’edizione della ‘BoboTV – Speciale Qatar’ andata in onda su Rai 1

C’è poi la questione campo. Come dicevamo prima, l’evoluzione tattica ha eliminato il rischio e l’adrenalina che da essa ne deriva. È la critica che spesso viene fatta a Guardiola, dove le sue squadre hanno così tanto dominio, così tanta perfezione da risultare monotone. In uno sport come il calcio che ha risonanza mondiale, spettacolo e vittoria dovrebbero andare di pari passo. Non è così. E questo non solo per quello che diceva Simon Kuper (Il calcio è un gioco ma anche un fenomeno sociale. Quando miliardi di persone si preoccupano di un gioco, esso cessa di essere solo un gioco.), dove vincere pare essere l’unica cosa che conti, ma anche per un impoverimento morale e una pervicace resistenza al cambiamento. Il primo è trasversale a tutte le categorie coinvolte, dai calciatori ai giornalisti. Rendere uno spettacolo, qual è il calcio, bello significa innanzitutto renderlo onesto e saperlo raccontare. Metà del tempo non è giocato, ma dedicato a permettere al giocatore di turno di rialzarsi e camminare come un nuovo Lazzaro dopo essere stramazzato al suolo per un buffetto sul volto o una spintarella. In virtù di ciò, durante i mondiali abbiamo visto tempi di recupero anomali, rendendo di fatto le partite temporalmente indefinite (Inghilterra-Iran è stata da record, con ben 27 minuti recuperati). La soluzione principe sarebbe quella di responsabilizzare i giocatori, ma questo vorrebbe dire cambiare di fatto il paradigma con cui tutti, tifosi inclusi, intendono oggi il calcio: vincere, non importa come. Cambiamento culturale che se non impossibile richiede tempi lunghi. L’alternativa è quella chiesta a gran voce da molti: il tempo effettivo. Ad oggi il tempo effettivamente giocato si aggira intorno ai 60 minuti. Assistere ad uno spettacolo perdendone un terzo significa assistere a qualcosa di monco.

Se oggi guardi le statistiche vedi che ci sono squadre che giocano 52 minuti, altre che ne giocano 43 e altre ancora 58. Se sommi tutti questi tempi in un campionato la differenza diventa grande. Un’altra cosa su cui fare una riflessione è: io spettatore pago un biglietto, allo stadio fisicamente, o a casa in PPV, per vedere 90 minuti di calcio ma ne vedo di giocato 44, 45, 46. Metà del prezzo del mio biglietto va in tempo non giocato.

Pierluigi Collina, presidente della Commissione Arbitri della FIFA

Ma questo ci porta al secondo tema. L’IFAB (International Football Association Board) solo da quest’anno (!) sta valutando il tempo effettivo. Ma il problema della perdita di tempo non è dell’ultimo anno, ma è atavico. La reticenza a modificare le regole del gioco ha reso il calcio uno sport sempre in ritardo sui cambiamenti culturali e sociali che lo coinvolgono. Motivo per il quale i giovani, nati tra il 1996 e il 2010, si stanno disaffezionando al calcio. A loro avviso la durata delle partite è “un supplizio“, soprattutto se la partita non è avvincente, intervallata da tempi morti e commentata da una telecronaca ridondante e fastidiosa.

L’attenzione delle nuove generazioni è sempre minore. Nel 2019 la capacità di attenzione era di appena 9 secondi. Se qualcosa non interessa subito, si passa altrove. Senza dargli una seconda possibilità, provare a vedere se magari qualcosa cambia. Come fa il calcio, i cui momenti di bellezza sono estemporanei o hanno un tempo di gestazione elevato, a coinvolgere un pubblico giovane? Si guarda il calcio solo se si è tifosi, specie se un calcio povero tecnicamente come quello italiano.

Scusi, Ronaldinho, lei il calcio lo segue ancora? E lui risponde così: «Guardo un po’ di tutto, ma non reggo più una partita intera: mi annoio. Mi accontento degli highlights. E a quello italiano preferisco il calcio spagnolo, più tecnico».

Intervista di Repubblica del 2016

Il nostro amato sport è malato, perde la leadership come attore globale. I giovani sono sempre meno interessati, una tendenza da invertire prima che sia troppo tardi. Le nuove generazioni prediligono altri spettacoli, come piattaforme online o videogiochi. Chiedono un prodotto di qualità che il calcio non dà, perché le competizioni attuali non attraggono… fino alle fasi finali.

Florentino Perez

Il calcio ha perso il suo ruolo di intrattenitore. Non c’è nessun aspetto ludico, non c’è l’equivoco del mito. È materia per addetti ai lavori. È nel migliore dei casi una noia, nel peggiore uno spettacolo pudendo.

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