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I cani nudi della Frontera Norte: gli Xolos di Tijuana

Vai sulla Revo e chiedi ai passanti da dove vengono. Tre su dieci ti diranno che sono nati qui, gli altri che vengono da Sinaloa, Jalisco, Zacatecas, Città del Messico Michoacán, Chiapas, Guerrero e Oaxaca. Tutti e dieci saranno orgogliosi di definirsi Tijuanenses. Gente venuta da altrove per fondare la nuova città globalizzata, la Tijuana orribile, la caotica metropoli invasa dal turismo che trova la sua essenza nel suo eclettismo culturale e nella grigia frontiera che la divide dagli Yankee. Chi si è fermato qui ha portato cibo, abbigliamento, la lingua e il costante contatto – vero o sognato – con gli USA. Abbiamo persone che parlano male lo spagnolo ma sanno ben gridare in inglese e questa cosa mi fa soltanto incazzare. È la città violenta, sconclusionata, tollerante che ti dà l’illusione di avere sempre il meglio del primo e del terzo mondo.

Un ragazzo di TJ

Una volta giunti in prossimità di Chula Vista – che letteralmente significa bella vista – la periferia di San Diego lascia spazio a un gigantesco tricolore messicano che svetta tra le colline e i tetti di lamiera che si schiacciano lungo la frontiera artificiale più famosa al mondo; è il momento in cui il viaggiatore non ha ancora varcato il confine ma ha già respirato il Messico in tutta la sua essenza. Gerardo, l’autista-Caronte del Greyhound che serve quotidianamente la tratta Los Angeles-Aeroporto di Tijuana, conosce bene il magnetismo di questo luogo e lo stupore che invade gli occhi di chi qui giunge colmo di storie, aspettative, timori e pregiudizi. Film, serie tv, storie di narco e faide tra cartelli, femminicidi, elevati tassi di omicidi e resoconti gringos tra sesso, farmaci e tequila hanno per anni pervaso l’immaginario collettivo al punto da convincere la stessa Tijuana di essere una nuova brutta, sporca e pericolosa Babele. In coda al Border Gate – il confine che sembra non esistere quando si marcia verso sud – Gerardo si gira verso i passeggeri invitandoli ad ammirare una bellezza che non si lascia cogliere: il centro di Tijuana si trova a meno di un kilometro di distanza ed è già possibile vedere ad occhio nudo i bordelli, le farmacie, le cliniche dentistiche, il centro di accoglienza per i deportati e la sfilza di bar, discoteche e negozi di cianfrusaglie che abitano la celebre Avenida de la Revolución. Ciò che un tempo era un arido e tranquillo villaggio ora è una città di un milione e duecento mila anime schiacciate tra l’oceano Pacifico, i cerritos e la frontiera che per molti è consuetudine varcare, per altri un trampolino per una vita migliore e per altri ancora la fine di una corsa.

Tijuana, Baja California, Mexico

Tijuana è bipolare: è lontana periferia per il Messico e allo stesso tempo il cuore pulsante della regione economica che dal 1° gennaio 1994 la lega a doppio filo con le californiane San Diego, Imperial Beach, Chula Vista, La Mesa ed El Cajon. La Globalizzazione e gli accordi NAFTA hanno cambiato il destino di questo luogo che in meno di tre decadi è diventato terra di approdo per centinaia di migliaia di messicani giunti dalle aree rurali e depresse del paese in cerca di lavoro nelle maquiladoras dedite al packaging e ultimazione dei prodotti elaborati negli USA e Canada. Da sempre abituata a plasmarsi sull’altro da sé oltre frontiera – prima come fonte di alcolici durante l’epoca del Proibizionismo a stelle e strisce, poi come dealer di sostanze stupefacenti made in Colombia e Messico –  Tijuana vive della relazione disfunzionale che ha sia con gli USA che con la madrepatria. Vista dal Messico, Tijuana è la città del furore, con circa due terzi della popolazione under 35 e con la classe media più numerosa del Paese. Da queste parti i salari sono in media più alti che nel resto della Repubblica messicana e molti Tijuanenses godono del vantaggio di sfruttare la frontiera per lavoro e i servizi. Per loro, San Diego è soltanto un’estensione geografica, il luogo dove guadagnare in dollari e trascorrere del tempo di qualità nel primo mondo. Questo quotidiano contatto con l’American way of life ha stravolto radicalmente lo stile di vita, gli usi e i costumi di chi va e viene ma anche di chi si ferma, impossibilitato, in Messico, in una sorta di continua deterritorializzazione della città che non fa altro che incrementare il gap tra ricchezza e miseria. 

Percorrendo la città, nel giro di pochi isolati si passa dai centri commerciali e i quartieri americani alle baracche, i bus dei polli e le zone off-limits: Tijuana vive tutte le virtù e le derive politiche, economiche e sociali del Messico, ma sempre giocando in anticipo sul resto del Paese. È la città che non può definirsi turistica, ma è presa d’assalto dal turismo da toccata e fuga che porta orde di statunitensi in cerca di sballo e divertimento ma anche farmaci senza ricetta e cure mediche e dentistiche a portata di portafoglio. Chi non ha il cash per garantirsi un’assicurazione sanitaria negli USA s’imbarca in un viaggio oltreconfine per ritrovare cure e dignità. C’è chi compie un viaggio della speranza verso sud e chi invece ci arriva da deportato: sono i messicani sin papeles, senza documenti, scoperti dalle forze dell’ordine americane e forzosamente rimpatriati. Padri, madri, figli e minori sradicati dalla sera alla mattina dalle loro famiglie e dalla vita americana, che finiscono per qualche giorno nel centro di accoglienza di Tijuana in attesa di capire come fare per vivere una nuova vita in Messico oppure tentare la via del ritorno negli USA mettendosi in mano ai Polleros, i trafficanti di persone. Chi non ha soldi e contatti, chi non parla lo spagnolo ed è messicano soltanto per la pelle e la storia dei suoi genitori, ma ha sempre vissuto, pensato e sognato in americano resta in città e con il tempo si ritrova a vivere nella bidonville del Rio Tijuana, il fiume in secca popolato da una società esclusa e sommersa. 

Tijuana vive della relazione disfunzionale che ha sia con gli USA che con la madrepatria. Vista dal Messico, Tijuana è la città del furore, con circa due terzi della popolazione under 35 e con la classe media più numerosa del Paese.

Nuovi migranti che si sommano a quelli che popolano le colonie nelle case di lamiera poste sulle colline che avvolgono la città come la 3 de Octubre, dove se piove frana tutto e gli anziani sono tagliati fuori dalla vita; si sopravvive soltanto con il lavoro ambulante. Migranti economici come le donne giovani e sole venute al cuore della Frontera Norte per lavorare su turni nelle fabbriche e convertirsi in percettrici di reddito per le loro lontane famiglie. A Tijuana come a Ciudad Juarez molte donne hanno pagato con mutilazioni, stupri e persino con la vita il prezzo di una società profondamente machista sulla quale l’economia globalizzata è piombata senza educare. Tijuana è tutto e il contrario di tutto a seconda di chi cerca di connotarla: c’è chi dice sia la regina della California dei senza speranza (la Baja California è uno stato messicano), chi pensa che non sia il vero Messico, che abbia venduto l’anima allo Zio Sam, chi – da lontano – le cambia il nome chiamandola semplicemente La Frontera. 

Forse sarà per questa continua ridefinizione della propria identità che persino nello sport le cose hanno preso sempre delle pieghe singolari. La gente di Tijuana è affamata di sport, sia esso legale o illegale, americano o patrio, a portata di dollari o pesos messicani. Fino ai primi anni Duemila l’interesse collettivo si divideva tra chi si dava al gioco della Pelota, chi assisteva ai match di Lucha Libre, chi sognava oltreconfine con il baseball dei Padres di San Diego e chi si giocava le speranze e la famiglia all’Ippodromo Agua Caliente. Seppur molto amato e seguito, il calcio ha faticato a lungo nel mettere le radici a queste latitudini. La prima vera squadra cittadina fu l’Inter de Tijuana, club fondato nel 1989 che arrivò al suo apice tra il 1994 e il 1997 giocando nella Seconda lega messicana per poi cambiare più volte nome e gestione fino a scomparire nel 2003. 

La svolta arrivò nel 2007 quando il Grupo Caliente – che aveva già rilevato il Club Querétaro, divenuto poi Gallos de Caliente – rilevò la franchigia occupata dai Guerreros de Tabasco e la trasferì a Tijuana ribattezzandola Club Tijuana Xoloitzcuintles de Caliente. A guidare il Grupo Caliente c’era Jorge Hank Rhon, figlio di Carlos Hank Gonzales, per molti uno dei più potenti miliardari e politici del Messico. Ingegnere, politico e impresario ma anche l’uomo talmente ossessionato dagli animali esotici che fu capace di pagare oro per rinchiudere la celebre orca assassina Keiko nel suo zoo di Città del Messico prima di farsi arrestare in Aeroporto (1991), colpevole di importazione illegale di pelli animali dal Giappone. La storia di Jorge Hank Rhon è una di quelle che potrebbero tranquillamente far da trama a un libro di Don Wislow oppure da sfondo per un pezzo di musica Norteña di successo. 

L’ascesa personale di Jorge Hank Rhon iniziò durante gli anni Ottanta quando assunse il controllo dell’Ippodromo di Tijuana, il tempio delle scommesse del Nord del Messico sul quale aleggiavano storie di mafia siculo-americana. Anni dopo, alcune guardie di sicurezza dell’impianto assassinarono Hector Felix Miranda, l’editorialista della rivista Zeta de Tijuana, colpevole di aver a lungo indagato ed espresso critiche nei riguardi della famiglia Hank. Le critiche avevano a che vedere con i presunti legami con il cartello della droga degli Arellano-Felix, il contrabbando di animali esotici, contanti e narcotraffico, tutti aspetti a lungo indagati sia dalla DEA che dall’FBI. Tutto questo non privò Hank Rhon dal possedere mezza Tijuana, ricoprire dal 2004 al 2007 la presidenza comunale e per ultimo creare da zero una squadra di calcio, lasciandone la presidenza al figlio Jorge Alberto Hank Inzunza. 

Così nacquero gli Xolotzcuintles, i cani nudi che rappresentavano sia la tipica razza canina preispanica che il Dio Xolotl, l’uomo con la testa di cane che guidava le anime verso il Mictlan, il luogo scelto dagli Aztechi come l’eterno riposo. Il primo passo fu l’avvio della costruzione dello stadio Caliente, un gioiello da 30 milioni di dollari con una capacità di 28 mila posti a sedere, oggi fulcro di eventi di ogni tipo. Il 14 gennaio 2007 gli Xolos esordirono ufficialmente nella Seconda serie messicana perdendo 3-0 in trasferta contro il Correcaminos. Malgrado le grandi aspettative coltivate dai soldi del Gruppo Caliente, nei successivi due tornei la squadra della frontiera faticò molto, arrivando persino alla retrocessione in terza serie al termine del Clausura 2008, declassamento evitato dalla riforma dei campionati voluta dalla FMF che ampliò la Primera A da 24 a 26 squadre. 

Gli Xolotzcuintles, i cani nudi che rappresentavano sia la tipica razza canina preispanica che il Dio Xolotl, l’uomo con la testa di cane che guidava le anime verso il Mictlan, il luogo scelto dagli Aztechi come l’eterno riposo.

Passato lo spavento, gli Xolos iniziarono a macinare gioco e risultati classificandosi secondi nel torneo successivo per poi cedere contro il Queretaro nelle semifinali della Liguilla. Nel torneo successivo il club di Tijuana vinse la regular season da imbattuta ed eliminò senza patemi sia i Lobos che il Petroleros nella Liguilla per poi cedere nella doppia finale per la promozione contro il Merida (0-0; 0.1). Il format messicano prevedeva per la ribattezzata Liga de Ascenso due tornei in un anno (Apertura e Clausura), con la vincitrice del primo torneo e quella del secondo in lizza per l’unica promozione nella massima serie. Dopo essere stati eliminati nella semifinale di Liguilla del Torneo Bicentenario 2010, gli Xolos vinsero a mani basse il Torneo di Apertura 2010 sconfiggendo nella doppia finale i Tiburones di Veracruz (2-0; 1:0). Nel torneo di Clausura 2011 la squadra di Tijuana riuscì nuovamente a raggiungere la finale di Liguilla dove però perse contro l’Irapuato (1-1; 0-1). Tijuana e Irapuato si ritrovarono così a disputare lo spareggio promozione, che si risolse in favore degli Xolos abili a imporsi 2-1 a domicilio dopo il pareggio dell’andata.  A soli quattro anni dalla fondazione, la squadra della frontiera era riuscita nell’impresa di conquistarsi la promozione in massima serie. Non ci fu neanche il tempo di festeggiare che sulla città piombò la notizia dell’arresto di Jorge Hank Rhon. La Federcalcio messicana aprì un fascicolo per verificare nel dettaglio l’organigramma societario degli Xolos dal momento che gli statuti federali vietavano l’affiliazione di un club il cui proprietario fosse detenuto o latitante. Al termine delle indagini la FMF dichiarò che il Tijuana avrebbe regolarmente preso parte alla Liga MX poiché registrato a nome del figlio di Hank Rhon. Gli Xolos debuttarono nell’élite del calcio messicano nel torneo di Apertura 2011, esperienza che fu avara di soddisfazioni e che terminò con un quindicesimo posto nella classifica finale, punteggio che metteva a rischio il club nel coefficiente per la retrocessione in Ascenso.  Con l’avvio del Clausura 2012 la dirigenza rossonera decise di esonerare l’artefice della promozione Del Olmo e al suo posto contrattò l’allenatore argentino Antonio “El Turco” Mohamed, il quale stravolse la squadra e conquistò sette vittorie consecutive che fecero balzare la jaurìa al settimo posto finale con conseguente accesso alla Liguilla.

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Dopo solo un anno in massima serie i cani di Tijuana erano tra le grandi del Messico, pronti a giocarsi un posto nella storia. Sfortunatamente il sogno durò il tempo dei quarti di finale dove gli Xolos uscirono pur non senza lottare contro gli esperti Rayados di Monterrey. Il Turco Mohamed decise di stabilirsi alla frontiera per tentare l’impossibile: la conquista del titolo di campione del Messico. Ciò avvenne, con enorme stupore dell’audience messicana, nel torneo successivo.  Dopo aver concluso la regular season seconda con 34 punti, gli stessi del Toluca primo in graduatoria, nei quarti di liguilla gli  Xolos si presero la rivincita sui Rayados (1-0; 1-1) e successivamente rimontarono lo 0-2 patito in casa nel Leon nella andata della semifinale vincendo 3-0 a Tijuana, guadagnandosi una doppia Gran Final contro il Toluca vinta sia in casa che in trasferta(2-1; 2-0).

Un anno e mezzo dopo la promozione nella massima serie Tijuana si trovò sul tetto del Messico e qualificata per la Copa LibertadoresAlla loro prima partecipazione nella coppa più dura e magica d’America e nonostante un girone proibitivo con i Millonarios (COL), il Cornthians (BRA) e il San José (BOL), gli Xolos riuscirono a conquistare 13 punti, frutto di quattro vittorie un pareggio e una sconfitta, qualificandosi alla fase a eliminazione diretta. Negli ottavi il Tijuana si trovò di fronte i brasiliani del Palmeiras per quello che sembrava essere un confronto senza storia. Dopo il pareggio a reti inviolate tra le mura amiche, i rossoneri volarono in Brasile per giocarsi il tutto per tutto e grazie ai gol di Riascos e Fernando Arce, riuscirono nell’impresa di vincere 2-1 fuoricasa, qualificandosi ai quarti di finale dove avrebbero affrontato l’Atlético Mineiro di Ronaldinho, la miglior compagine della Libertadores 2013. L’andata si disputò a Tijuana e gli Xolos partirono così forte dal portarsi avanti sul 2-0 per poi essere raggiunti sul 2-2 dai brasiliani due minuti dopo il novantesimo. Il match di ritorno a Belo Horizonte fu ancor più tirato, con gli Xolos avanti per 1-0 al 25’ grazie al bomber Riascos e poi raggiunti dai brasiliani sul finire della prima frazione. Quando tutto lasciava intendere che l’Atletico sarebbe passato per i gol in trasferta, al novantaduesimo l’arbitro Polic fischiò un rigore a favore del Tijuana. Posizionatosi sul dischetto, Riascos si fece parare il rigore della vita dal portiere brasiliano Victor Bagy e il match si concluse con l’eliminazione dei rossoneri. 

Finiva così la favola della squadra sorta dal caos della frontiera che aveva avuto il merito di far vivere un sogno senza fine alla gente di Tijuana, trasformando la città da dentro, facendole mettere da parte tutte le sofferenze, le etichette e le storie passate. Dopo la Libertadores non si sono verificati altri miracoli sportivi per il club dei cani nudi se non uno e forse il più importante: grazie agli Xolos esiste oggi una parte di mondo che guarda con occhi nuovi, curiosi e benevolenti, quello che fino a qualche anno fa veniva definito un autentico inferno. 

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