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Il vecchio, il mare e Robin Gosens

Ne Il vecchio e il mare il protagonista, un pescatore, già presentato all’inizio del libro come vecchio, racconta la propria sfida col mare e con se stessi; solo alla fine del romanzo cederà al Marlin sentendo che le ultime forse lo avevano abbandonato, sfiancato, concedendo così la vittoria al grande pesce. Il libro di Hemingway ci racconta la sfida dell’uomo con i propri limiti, con la propria salute, con la propria forza. Perché citiamo Hemingway in un articolo che parla di una recente dichiarazione di Robin Gosens, esterno tedesco dell’Inter? Perché oggi fanno discutere le sue parole di responsabilità e analisi della sua situazione psico-fisica. Parole che riportano allo studio sui limiti dell’uomo performativo di Hemingway, e di una franchezza tali da aver suscitato immediatamente un dibattito fra giornalisti, psicologi, esperti di strategie motivazionali e semplici fan del tedesco.

Ad accendere l’ interesse è stata un’intervista ad un network tedesco di qualche giorno fa in cui Gosens ha raccontato il proprio percorso da goldenboy del gotha calcistico alla non convocazione per i mondiali. Una parabola improvvisa di cui però il giocatore tedesco sembra essere più che consapevole, vista anche la franchezza con cui si è raccontato.

Non sono stato quello che l’Inter sperava di comprare. Sono insoddisfatto di me stesso perché ero andato all’Inter con l’aspirazione di diventare un giocatore titolare. Se una squadra prende un terzino sinistro per quasi 30 milioni di euro, vuole dire che sta investendo.

In queste parole non c’è vittimismo, bensì la lucidità di aver disatteso le aspettative, proprie e del club di arrivo. Ma si sa, l’analisi lucida di una situazione è già essa stessa una ripartenza.

La mia carriera prima era come una favola: è andata avanti all’infinito. All’improvviso sono diventato all’Atalanta il terzino sinistro più pericoloso d’Europa e titolare all’Europeo. Poi è arrivato l’infortunio e le ricadute dopo la prima riabilitazione.

Le ragioni partono da un infortunio, molto forte, che lo ha costretto ad un ritorno in campo non in condizioni fisiche eccellenti.

Ho totalmente sottovalutato il problema del mio status psicomotorio negli ultimi mesi. Sono un giocatore che vive del fisico. E non sono riuscito a recuperare il mio deficit di forma fisica per molto tempo. Ciò significa che non sono chi vorrei essere in campo. Arrivo in ogni momento con un secondo di ritardo. Sono in area di rigore quando la palla è già sparita.

Un’analisi spietata che sembrerebbe portare con sé un senso di sconfitta inesorabile, ma non per Robin Gosens che invece, dopo aver scandagliato i motivi del proprio declino (momentaneo), ha in nuce una soluzione a piccolo-medio termine. Un’analisi che proprio nel suo farsi spietata individua la possibilità di uscire dal labirinto. Quello che compie oggi Robin Gosens è quello che in molti lavori viene considerato il momento in cui si riconce di essere in burnout, cioè carichi di uno stress dovuto alla situazione lavorativa. Un fenomeno nuovo per gli sportivi, che tuttavia da sempre si trovano a gestire mole di stress non indifferenti per la natura stessa della propria attività. Da cosa nasce, però, un calo di prestazione sportiva e, soprattutto, perché un abbassamento delle prestazioni (anche per motivi fisiologici) viene vissuto con tanta ansia? La risposta ovviamente è quella di uno sport che chiede prestazioni sempre più alte con una frequenza sempre più ravvicinata. Non è un caso che l’esperienza nel calcio venga raccontata da Gosens in termini “favolistici” fino a quando vestiva la maglia dell’Atalanta. Dalle stesse parole di Gosens scopriamo l’attesa di prestazioni per cui sono stati sborsati molti soldi, ragione che ovviamente aumenta l’ansia di chi deve poi essere all’altezza delle aspettative.

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La faccenda si complica quando ovviamente entra in campo la salute: un infortunio lungo e difficile, porta con sé aspetti non più solo sportivi. Se pensiamo all’ansia dei grandi campioni quarantenni che lavorano sul proprio corpo per allentare la ghigliottina del tempo sulle proprie prestazioni, possiamo facilmente capire la paura di un giocatore ventottenne che dal piedistallo del mondo si preoccupa di non retrocedere a livelli di prestigio più basso. Sappiamo che il calcio, per quanto si cerchi di allungarne il tempo grazie alle tecnologie, è uno sport che consuma tutti in poco tempo. Non che altri sport siano più longevi, si pensi solo all’atletica, ma sicuramente il livello di riconoscimento sociale ed economico del calcio crea la sindrome del non voler essere dei perfetti sconosciuti in tempi brevi. Questa sfida, portata ai massimi livelli, diventa la sfida degli sportivi contro i propri limiti, che siano d’età, di salute o di stimolo psicologico, proprio come il Vecchio di Hemingway che nella sfida al pesce vede una sfida alla propria forza. Ricordiamo la storia drammatica di Billy Kee, giocatore della terza divisione inglese, che ha abbandonato il calcio per l’ansia da prestazione che gli stava rovinando la vita. Non sono pochi i casi di calciatori che raggiunti livelli alti non riescano a reggerne i ritmi. Le parole di Gosens, però, fanno trasparire una grande intelligenza: parlare onestamente di questo offuscamento, vuol dire sapersi caricare sulle spalle anche il fallimento ed essere capaci di affrontarlo. 

Curioso come Gosens abbia da poco aperto un profilo LinkedIn con il preciso scopo di aprire discussioni legate al mondo del calcio che coinvolgano psicologi, professionisti e medici. Fresco di una laurea in psicologia, ha spiegato alla stampa come lo studio della mente lo aiuti a comprendere quale sia il mindset più efficace per affrontare la stressante vita di uno sportivo di alto livello.

Mi affascina capire come funziona la mente, non solo la mia. Quando sei preoccupato le tue performance ne risentono.

Intervista di Gosens ad Outpump

È facile intuire come quella da aperta da Robin Gosens sia una via all’interpretazione del ruolo del calciatore, non più visto come semidio a cui sono richiesti solo miracoli, ma un profilo molto più vicino a quello di qualunque professionista che si trovi a gestire situazioni complesse. Non sarebbe la prima volta che il calcio “ruba” strategie da altri mondi professionali. Forse, come già si fa oltreoceano nel baseball soprattutto, stiamo arrivando ad un calcio sempre più contaminato da elementi di economia, psicologia, relazioni umane e molte altre scienze. Del resto il mondo è in continua evoluzione, e il calcio insieme a lui, come raccontano nel bel libro Soldi vs. Idee di Michele Uva e Maria Luisa Colledani. Per queste ragioni è sano che il calcio cambi i propri stadi, i propri stereotipi di sessuali o razziali e perché no, anche i modelli comportamentali dei calciatori di professione. 

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