Negli ultimi tempi, le sfide del regime talebano sembrano essersi affievolite, permettendo all’Afghanistan di riaffacciarsi lentamente sulla scena internazionale. A tre anni dalla riconquista del potere, nonostante l’emarginazione globale e le pesanti critiche per la soppressione dei diritti delle donne, i talebani hanno cominciato a tessere una sottile ma efficace rete diplomatica. Dove un tempo si stagliavano minacce di sanzioni e isolamento, oggi iniziano ad aprirsi spiragli di riconoscimento, con alcuni Paesi pronti a dialogare o addirittura a stabilire relazioni diplomatiche con il nuovo governo.
I segnali del cambiamento
Le notizie arrivano da fonti spesso contrastanti, ma è innegabile: Cina e Emirati Arabi Uniti hanno compiuto mosse senza precedenti, accogliendo rappresentanti talebani in ruoli che in genere spettano solo ai governi riconosciuti formalmente. A gennaio, Pechino ha addirittura nominato un diplomatico talebano come ambasciatore, scardinando un sistema consolidato di non riconoscimento che pareva blindato. Anche gli Emirati, storicamente schivi su temi legati ai diritti sociali, hanno seguito a ruota, conferendo legittimità a un rappresentante talebano ad agosto.
L’Uzbekistan ha inviato il suo primo ministro in visita ufficiale a Kabul, un segnale tangibile di volontà di dialogo. E perfino il Cremlino ha aperto discussioni sul possibile depennamento dei talebani dalla sua lista di organizzazioni terroristiche, una decisione che, se presa, farebbe della Russia il primo Paese a compiere un simile passo. Questi segnali, pur cauti e frammentati, stanno contribuendo a scolpire l’immagine dei talebani come governo di fatto e non più come ribelli ai margini della legalità internazionale.
E l’Occidente?
Gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno reiterato le proprie linee rosse, soprattutto sul tema dei diritti delle donne, come condizione imprescindibile per qualsiasi dialogo ufficiale. Washington è ferma: senza segnali di miglioramento nelle condizioni delle donne, le sanzioni rimarranno, così come la presenza dei funzionari talebani nelle liste nere.
Eppure, anche in Europa, iniziano a emergere segnali di un atteggiamento più pragmatico. Alcuni Paesi hanno accettato di parlare con i talebani su specifici temi, posticipando la questione dei diritti civili e concentrandosi invece sulla stabilità politica e sulla sicurezza regionale. A giugno, le Nazioni Unite hanno addirittura permesso ai talebani di partecipare a una conferenza sull’Afghanistan, evitando deliberatamente di insistere sul tema dei diritti delle donne.
Sembra esserci una preoccupazione crescente: il rischio di flussi migratori incontrollati e la minaccia di gruppi terroristici che potrebbero radicarsi nel Paese sotto il governo talebano. In questo clima di incertezza, alcune ambasciate afghane nel Regno Unito e in Norvegia hanno chiuso di recente, ufficialmente su richiesta dei Paesi ospitanti. Ma la realtà è che la politica estera occidentale non è mai stata così poco uniforme.
Una leadership divisa
Mentre la diplomazia internazionale riflette cautamente sulle proprie mosse, il fronte interno afghano mostra un panorama ancora più frammentato. Nonostante l’apparente unità, i talebani sono divisi da fratture profonde, con visioni opposte sulla direzione da prendere. Il capo di Stato talebano, lo sceicco Haibatullah Akhundzada, sostiene una visione ultraconservatrice della legge islamica, imponendo restrizioni severe soprattutto sui diritti delle donne.
Ma dietro le quinte, si profilano altre figure, come Sirajuddin Haqqani, che sta cercando di smussare gli angoli della politica talebana per rendere il regime meno intransigente. Il passato militare di Haqqani è oscuro, ma oggi si presenta come una figura più pragmatica, intenzionata a costruire ponti con il mondo esterno, consapevole che l’isolamento completo minaccia la sopravvivenza del regime. La sua apertura verso il dialogo con altri Paesi, in particolare quelli del Golfo Persico e persino la Russia, è un tentativo di controbilanciare l’approccio inflessibile di Haibatullah.
Il fattore economico
La spinta verso il riconoscimento ha anche radici economiche. L’Afghanistan è un Paese ricco di risorse minerarie, e il regime talebano sta cercando di sfruttarle appieno. Negli ultimi mesi, la Cina ha firmato una serie di contratti per esplorarne i giacimenti e sviluppare infrastrutture, mentre altre imprese regionali stanno valutando progetti simili, portando capitali freschi in un Paese che ha visto il flusso di aiuti internazionali ridursi drasticamente dopo la caduta del precedente governo.
Questo nuovo corso, però, porta con sé un effetto collaterale: con meno pressione internazionale, i talebani sentono minore bisogno di fare concessioni in ambito di diritti civili. Il contesto internazionale sembra, in qualche modo, garantire al regime maggiore, in nome della realpolitik, libertà d’azione in ambito interno, sebbene a spese di una parte significativa della popolazione.