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Foto: Eduardo Monteiro

Edmundo “O Animal”

Come tante altre leggende del calcio brasiliano, la storia di Edmundo Alves de Souza Neto ha inizio nelle favelas di Rio de Janeiro. In una casa modesta su Teixeira de Freitas Street, a soli 30 km dall’eleganza di Ipanema ma distante anni luce dal suo benessere, Edmundo trascorse l’infanzia con il fratello Luizinho giocando a calcio tra le vie del quartiere, mentre il padre Reinaldo, barbiere, e la madre, lavandaia, si sacrificavano con lunghi turni di lavoro.

Già da bambino, il piccolo “Dinho”, come lo chiamavano affettuosamente amici e familiari, mostrava un talento innato per il pallone. Fu sua zia Maria a notare per prima le sue potenzialità, incoraggiandolo ad entrare nelle giovanili del Botafogo. Ma il talento era accompagnato da un’indole autodistruttiva. Espulso dal ritiro giovanile per comportamento indecoroso, trovò una nuova opportunità al Vasco da Gama, il club della sua infanzia. Qui, grazie a prestazioni straordinarie nelle giovanili, riuscì a conquistare un posto in prima squadra nel 1992; e nel suo primo anno, guidò il Vasco alla vittoria nel Campionato Carioca, formando un duo letale con Bebeto. Ma la sua forte personalità iniziò presto a creare tensioni nello spogliatoio.

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Foto: Eduardo Monteiro

Nel 1993, Edmundo passò al Palmeiras, all’epoca sostenuto economicamente dalla Parmalat, per una cifra record di 2 milioni di dollari. È qui che raggiunse l’apice della sua carriera. Insieme a leggende come Roberto Carlos, César Sampaio e Rivaldo, trascinò il club alla vittoria di due titoli consecutivi nel Brasileirão e del Campionato Paulista. La sua tecnica, il suo istinto e la sua aggressività in campo lo resero un protagonista indiscusso. Fu in questo periodo che Osmar Santos, uno dei più celebri telecronisti brasiliani, lo soprannominò O Animal.

Non nasce dai miei comportamenti. Santos usò l’espressione ‘l’animale della partita’. Siccome ero spesso il migliore, mi rimase quell’etichetta.

Ma nonostante la consacrazione e i successi Edmundo non riusciva a tenere a freno il proprio temperamento. Nel 1994, pochi mesi prima del Mondiale americano, prese a pugni l’allenatore Vanderlei Luxemburgo. Il Palmeiras lo sospese, mentre la Seleção lo escluse dalla rosa. “Luxemburgo era come un padre per me,” ammise Edmundo anni dopo, sebbene i due finirono in tribunale per un prestito mai restituito al giocatore. Nonostante non prese parte al Mondiale del 1994, dove il Brasile trionfò contro l’Italia ai rigori, continuò a distinguersi come uno dei migliori attaccanti della sua generazione. Fu convocato per il Mondiale del 1998, sebbene il suo ruolo fosse relegato a comprimario dietro Bebeto, Rivaldo e Ronaldo. Eppure a Parigi il suo ruolo, stando a quanto ha raccontato, fu fondamentale, rendendosi protagonista di un momento drammatico che avrebbe potuto cambiare le sorti della finale contro la Francia.

Attraverso la porta aperta vidi Ronaldo in preda alle convulsioni. Era sdraiato, il volto violaceo, con la bava alla bocca. Chiamai immediatamente il medico e, insieme, riuscimmo a farlo respirare.

Nonostante le condizioni critiche, il Fenomeno fu comunque schierato titolare dal commissario tecnico Zagallo. “Mi dispiace, Edmundo, abbi pazienza“, furono le parole del ct. Il resto è ormai storia.

Il 2 dicembre 1995 fu probabilmente il momento più tragico nella sua vita, un punto di non ritorno. Dopo una serata di festa, l’attaccante guidò in stato di ebbrezza, causando un incidente stradale in cui persero la vita tre persone: una ragazza che viaggiava con lui e una coppia che si trovava nell’altra auto coinvolta. Accusato di omicidio colposo, Edmundo si trovò a dover affrontare non solo le conseguenze legali, ma anche un’improvvisa caduta professionale. Perse il contratto con il Flamengo, rimase senza squadra e visse con il peso di una possibile condanna penale. La vicenda giudiziaria si trascinò per anni, fino alla sentenza definitiva del 2011, quando venne condannato a quattro anni e mezzo di semilibertà per omicidio colposo. Ma evitò il carcere grazie alla prescrizione.

Sono un eterno pentito. Questa tristezza non passerà mai.

Nonostante il dramma, riuscì a trovare un fragile riscatto nel calcio. Tornato al Vasco da Gama nel 1997, visse la stagione migliore della sua carriera, segnando 29 gol e laureandosi capocannoniere del Brasileirão. Fu un momento di gloria sportiva che, tuttavia, non bastò a cancellare le ombre del passato. Le polemiche continuarono a inseguirlo, alimentate dalla sua fama di giocatore indisciplinato e dal ricordo di quella tragica notte.

Le tragedie personali non si limitarono all’incidente del 1995. Nel 2002, mentre giocava in Giappone, suo fratello Luizinho fu assassinato. Il corpo venne ritrovato nel bagagliaio di una Fiat Palio. Poco tempo dopo, perse anche entrambi i genitori.

Scambierei tutto, carriera, fama e soldi, per averli di nuovo con me.

Nel gennaio del 1998, approdò alla Fiorentina, una squadra che, sotto la guida esperta di Giovanni Trapattoni, si stava imponendo come una delle protagoniste del campionato italiano. La rosa era di prim’ordine, con campioni del calibro di Gabriel Batistuta, Rui Costa e Francesco Toldo, e il club a gennaio si trovava campione d’inverno e in piena corsa per lo scudetto. Ma il soggiorno di Edmundo in Italia fu segnato da un episodio destinato a diventare emblematico. A febbraio, nel momento clou della stagione, l’attaccante brasiliano lasciò Firenze per volare in Brasile e partecipare al Carnevale di Rio de Janeiro. Sebbene la sua assenza fosse prevista da una clausola contrattuale, la decisione suscitò grande scalpore, soprattutto considerando le ambizioni della squadra. Durante la sua assenza, infatti, la Fiorentina perse punti fondamentali e uscì definitivamente dalla lotta per il titolo, che alla fine si contese tra Lazio e Milan.

Succede che io mi lesiono un ginocchio e un compagno che giocava come attaccante e che sarebbe stato molto importante per noi decide di andarsene a ballare al Carnevale (Edmundo, ndr). E questa cosa viene permessa dai dirigenti, che è la cosa grave. L’ho vissuto come un tradimento. Sono rimasto nella Fiorentina a lottare, ma quello fu l’inizio della fine della mia storia con la Fiorentina come squadra. Alla fine sono andato alla Roma nonostante a Firenze mi sentissi come un re.

Gabriel Batistuta

Il rapporto con la Fiorentina si concluse rapidamente, e l’anno successivo Edmundo si trasferì al Napoli, dove visse una parentesi meno brillante, prima di cercare nuove sfide in Giappone. Nel Tokyo Verdy, il brasiliano tornò a esprimere il meglio del suo talento, segnando 21 gol in 30 partite e conquistando il cuore dei tifosi nipponici. Ma l’esperienza lontano da casa durò poco, e nel 2000 Edmundo tornò in Brasile per chiudere la carriera dove tutto era iniziato: al Vasco da Gama. A 38 anni, lasciò il calcio giocato con un bilancio fatto di successi straordinari, episodi controversi e un talento che, nonostante tutto, lo consacrò come uno dei giocatori più memorabili della sua generazione.

Ha attraversato due matrimoni, costellati da numerosi tradimenti, e ha avuto quattro figli da relazioni con donne diverse. Tra questi, il rapporto più complicato è stato con il primogenito Alexandre, che ha dichiarato apertamente la propria omosessualità. Per anni padre e figlio hanno vissuto una relazione difficile, caratterizzata da incomprensioni e distanze, ma recentemente sono riusciti a ritrovare un equilibrio, riconciliandosi. Nonostante le vicende personali spesso ingombranti, Edmundo ha, però, sempre rivendicato con orgoglio il proprio talento calcistico.

Ero anche più forte di Ronaldo. Romário, lui sì, forse era meglio di me.

Ma il carattere irrequieto e indomabile ha spesso oscurato le sue imprese sportive. La sua carriera è stata scandita da episodi controversi, dalle risse in campo agli arresti domiciliari, come quello seguito all’aggressione a un cameraman. Rimane però una figura polarizzante nella storia del calcio: un genio ribelle, capace di incantare con giocate straordinarie, ma anche di spaccare l’opinione pubblica con comportamenti sopra le righe. Amato e odiato in egual misura, il suo lascito va oltre i numeri e i trofei: è il simbolo di un talento tanto straordinario quanto indomabile, che ha incarnato le contraddizioni e le passioni più profonde del calcio brasiliano.

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