Niccolò Machiavelli

Niccolò Machiavelli, la visione disincantata del potere e il paradosso della libertà

Un metodo di tortura usato nelle prigioni fiorentine durante il Rinascimento era il tratto di corda, una pratica brutale in cui il prigioniero veniva sollevato con le mani legate dietro la schiena e lasciato cadere ripetutamente verso il pavimento. I muscoli si laceravano, le spalle si slogavano, e le braccia spesso si fratturavano. Fu proprio in quelle condizioni che Niccolò Machiavelli, uomo di pensiero e di azione, chiese carta e penna dopo aver subito sei cadute. Paradossalmente, non aveva nulla da confessare: benché il suo nome fosse apparso in una lista compromettente, non era coinvolto nella congiura contro i Medici, appena ritornati al potere. Ma questo poco importava; la sua lealtà alla repubblica era sufficiente a giustificare la detenzione e la tortura.

Era in prigione da quasi due settimane quando, nel febbraio del 1513, nel disperato tentativo di ottenere il perdono, scrisse un paio di sonetti indirizzati al “Magnifico Giuliano”, mescolando pathos, audacia e arguzia. “Ho sulle gambe, Giuliano, un paio di catene“, iniziò, proseguendo con una descrizione grottesca della sua cella: i pidocchi sui muri sembravano grandi come farfalle, e il rumore delle chiavi e dei lucchetti rimbombava intorno a lui come tuoni di Giove. Forse temendo che le poesie non avrebbero avuto l’effetto desiderato, aggiunse che la musa evocata lo aveva colpito in faccia piuttosto che offrirgli ispirazione. Infine, all’erede di una famiglia nota per il suo mecenatismo artistico, presentò con indignazione la sua protesta: “Ecco come vengono trattati i poeti!

Niccolò Machiavelli

Niccolò era cresciuto nella Firenze governata da Lorenzo il Magnifico, in anni di relativa stabilità per la città. Suo padre lo aveva introdotto ai circoli culturali e intellettuali del tempo. La sua famiglia era di nobili origini, ma tutt’altro che ricca, ed era chiaramente legata agli ideali repubblicani. Due cugini di suo padre erano stati decapitati per essersi opposti al fondatore della dinastia, Cosimo de’ Medici, che nel 1434 aveva di fatto posto fine alla storica repubblica fiorentina per tutelare meglio l’immensa fortuna della banca di famiglia. La repubblica era per lui un ideale e non solo un sistema di governo.

Sebbene non avesse avuto alcun legame con il regime religioso del predicatore domenicano Savonarola, che aveva preso il posto dei Medici (disprezzava le pie “bugie” del predicatore pur ammirandone le riforme repubblicane), si trovò comunque coinvolto nelle trame di potere quando la città si rivoltò contro il suo stesso “salvatore”. Savonarola, dopo aver subito quattordici cadute della corda, venne giustiziato. E nel 1498 con la caduta del regime religioso e l’allontanamento dei suoi sostenitori dagli incarichi governativi, Machiavelli ottenne un lavoro nel nuovo governo cittadino. Da allora e per i successivi quattordici anni, servì con orgoglio una Firenze che, tornata indipendente e repubblicana, si era anche fortificata per resistere sia alla minaccia dei Medici sia all’ambizione di altre potenti famiglie. La principale garanzia della libertà cittadina era il Maggior Consiglio, un’assemblea che dava voce ai circa cinquantamila abitanti ed era il governo più rappresentativo del tempo.

A soli ventinove anni, Machiavelli fu nominato Secondo Cancelliere, con il compito di gestire la corrispondenza della città e i resoconti interni. La sua straordinaria energia fisica e intellettuale – amava vantarsi di saper citare riferimenti “greci, latini, ebraici e caldei” – contribuì probabilmente a far sì che in un mese gli fosse assegnato anche il ruolo di Segretario dei Dieci di Guerra, incaricato di pericolose missioni diplomatiche, spesso in situazioni di emergenza. La guerra era una costante: in quegli anni, Francia, Spagna e Sacro Romano Impero, intenti a risolvere conflitti di potere, marciavano frequentemente attraverso gli Stati italiani divisi e indeboliti; Firenze, Milano, Genova, Venezia, Napoli e molti altri piccoli ducati e repubbliche trovavano difficile resistere in mancanza di un fronte unito.

Machiavelli prosperava in quell’ambiente di incertezza. In uno dei suoi rapporti, descrisse i suoi doveri come il tentativo di comprendere le “intenzioni del sovrano, cosa volesse realmente, in che direzione stesse volgendo il suo pensiero e cosa potrebbe convincerlo ad avanzare o a ritirarsi“; parlava della necessità di “congetturare il futuro attraverso negoziazioni e imprevisti“. In sostanza, ci si aspettava che possedesse la perspicacia di uno psicologo e l’intuizione di un profeta.

E ci riusciva egregiamente. Pur non potendo aspirare al grado di ambasciatore a causa della sua modesta condizione economica (ufficialmente era solo un inviato, anche se si definiva, con una certa pomposità, “Segretario fiorentino“), i suoi giudizi lo resero il braccio destro del gonfaloniere della Repubblica, Piero Soderini. Fu inviato a trattare con re Luigi XII di Francia, con papa Giulio II e con l’imperatore Massimiliano. Machiavelli era insaziabilmente curioso della natura umana e tra tutti i personaggi che incontrò, nessuno lo colpì quanto Caterina Sforza, duchessa di Forlì, e soprattutto Cesare Borgia. Figlio del papa spagnolo Alessandro VI, Borgia era al culmine del suo potere quando, nel 1502, ricevette Machiavelli nel palazzo ducale di Urbino, secondo la leggenda a lume di candela e vestito di nero, già allora una figura tenebra e teatrale. Borgia aveva da poco conquistato Urbino e un’ampia porzione dell’Italia centrale con audacia e con il tradimento. Machiavelli rimase affascinato dalla mossa astuta con cui il regnante aveva ottenuto dal Duca di Urbino l’artiglieria necessaria per conquistare una città vicina, solo per rivolgerla contro il ducato stesso, ormai privo di difese. Non potendo evitare il confronto tra la formidabile efficienza di Borgia e la lenta, prudente repubblica fiorentina, che soffriva sia per le sue virtù che per i suoi limiti, Machiavelli scrisse con entusiasmo al governo di Firenze delle lezioni che quel potente nemico poteva insegnare. In quel giovane guerriero senza scrupoli vedeva un possibile eroe: un leader capace di cacciare gli invasori stranieri e di trasformare l’Italia in una realtà concreta, non solo in un’idea poetica.

L’Italia, dopo tanti anni, deve accogliere il suo liberatore. L’amore con cui queste terre, che hanno sofferto l’invasione di eserciti stranieri, lo accoglieranno sarà sconfinato, così come la loro sete di vendetta, la loro ferrea lealtà, la loro devozione e le loro lacrime. Tutte le porte saranno spalancate. Quale popolazione non abbraccerebbe un tale leader?

La lezione più pratica che il nostro apprese da Borgia fu, però, lo spiegamento di un esercito di cittadini. A un certo punto delle sue campagne, dopo che i suoi mercenari assoldati avevano cospirato contro di lui, Borgia era stato costretto ad arruolare contadini dai territori conquistati. Machiavelli riconobbe i vantaggi di un tale sistema, che divennero particolarmente chiari quando l’esercito mercenario di Firenze, in guerra contro Pisa, si voltò ignominiosamente e fuggì quando i combattimenti divennero troppo duri. Chi, dopotutto, era disposto a morire per una manciata di fiorini? D’altra parte, chi non era disposto a morire per la propria patria? Nel 1505, Machiavelli sostenne la causa di una milizia cittadina fiorentina e appena tre anni dopo, guidò mille soldati-cittadini nell’ultimo dei quindici anni di attacchi a Pisa e, con grande stupore generale, i fiorentini vinsero.

La reputazione militare di Machiavelli rimase intatta fino al 1512, quando la milizia, che difendeva la vicina città di Prato dalle truppe spagnole, ruppe i ranghi e corse sfacciatamente come i mercenari più vili. Peggio ancora, la sconfitta lasciò Firenze dalla parte dei perdenti di una battaglia più ampia tra la Francia e le forze alleate della Spagna e di Papa Giulio II. Con Firenze vulnerabile, una fazione pro Medici colse l’occasione e il governo repubblicano fu rovesciato. E così accadde che nel settembre del 1512, dopo un’assenza di diciotto anni, i Medici tornarono in città. Nel giro di pochi giorni, la milizia di Machiavelli e il Maggior Consiglio furono licenziati.

Niccolò Machiavelli

Sebbene Machiavelli avesse perso la sua posizione di Segretario, sembrava ancora convinto di poter esercitare una certa influenza. Scrisse una supplica formale in difesa di Piero Soderini, l’uomo che aveva aiutato a fuggire alla vigilia del ritorno dei Medici. In questo documento straordinario, Machiavelli argomentava contro l’accanimento dei Medici verso Soderini, proponendo una motivazione politica: “Attaccare un uomo esiliato e ormai innocuo indebolirebbe solo il governo dei Medici“. In realtà, oltre la giustificazione politica, emergeva l’intento di difendere un amico e, indirettamente, il popolo fiorentino.

Ma ogni illusione di influenza svanì pochi mesi dopo, quando, nel febbraio del 1513, fu arrestato e torturato. Se Giuliano de’ Medici lesse mai i sonetti che Machiavelli gli dedicò nessuno lo sa, ma, in fin dei conti, non servì. Dopo un mese di prigionia, fu liberato grazie a un’amnistia concessa in seguito all’elezione al papato del cardinale Giovanni de’ Medici, divenuto Leone X, il primo papa della famiglia Medici. “Dio ci ha dato il papato“, avrebbe detto Leone a Giuliano, “godiamocelo“.

Anche allora, Machiavelli sperava che “questi nostri nuovi padroni” potessero trovare utili i suoi servizi. Aveva esperienza, energia e a quarantatré anni era ancora in gran forma. Anni di servizio civile avevano dimostrato la sua affidabilità, e, confidandosi con un amico, disse: “La mia povertà è prova della mia fedeltà e virtù“. Aveva un disperato bisogno di un lavoro. Quella primavera, ancora disoccupato, si ritirò a vivere con la moglie e i figli nella fattoria di famiglia vicino a San Casciano. Il luogo era vasto ma fatiscente, e Machiavelli, fuori dal suo elemento, passava il tempo a catturare uccelli e a giocare a carte, mentre gli amici mondani non mancavano di inviare saluti ironici… rivolti alle sue galline.

Ma la sera, quasi in un rito, Machiavelli si liberava dei vestiti fangosi e indossava l’abito da ambasciatore. “Equipaggiato in modo appropriato, entro nelle venerabili corti degli antichi“, scrisse in una delle lettere più celebri del Rinascimento, “dove non mi vergogno di conversare con loro e di interrogarli sui motivi delle loro azioni, e loro, per la loro umana gentilezza, mi rispondono“.

Proprio da queste esperienze nacque Il Principe, un’opera in cui Machiavelli riversò le sue osservazioni più dirette e i suoi pensieri più intimi sul potere. L’opera, più che un manifesto di cinismo, è uno sguardo nudo sulla realtà. Nei suoi consigli al principe non c’era spazio per illusioni o nobili bugie. Machiavelli suggeriva che per un governante fosse più sicuro essere temuto piuttosto che amato, e che il successo politico richiedesse un adattamento costante alle circostanze, anche a costo di sacrificare la moralità tradizionale. “Gli uomini sono ingrati, volubili, simulatori“, scrisse. E chi meglio di lui poteva confermare queste parole, avendo assistito alla rapidità con cui le alleanze si rompevano e le promesse venivano tradite?

Il Principe non fu accolto favorevolmente; anzi, venne pubblicato solo dopo la sua morte e rapidamente condannato dalla Chiesa. La sua impietosa analisi della natura umana e l’approccio pragmatico alla politica vennero interpretati come una minaccia per l’ordine morale dell’epoca. Ma il messaggio di Machiavelli era chiaro: un sovrano doveva conoscere la vera natura dell’uomo per poter governare.

Fu accusato di aver ispirato Enrico VIII a sfidare l’autorità papale e a impadronirsi del potere ecclesiastico per rafforzare la corona. E trent’anni dopo, in Francia, il suo libro fu additato come causa dell’ordine di Caterina de’ Medici di massacrare duemila ugonotti. Vi era ben poco che giustificasse un’associazione tra Machiavelli e questi eventi, ma la sua fama cresceva proprio grazie alle distorsioni e alle accuse che il suo pensiero suscitava. L’opera circolava con titoli come Stratagemmi di Satana e ogni volta che un sovrano usurpava poteri religiosi o nobiliari, o impiegava l’inganno o la forza bruta, l’immagine di Machiavelli veniva evocata.

Ma cosa causò realmente tutto questo furore? Ecco, fuori contesto e messi insieme (esattamente come facevano i suoi detrattori) alcuni dei passaggi più “diabolici” dell’opera:

  • Un principe, specialmente uno nuovo, non può permettersi di coltivare le qualità per cui gli uomini sono definiti buoni. Per mantenere il potere, sarà spesso costretto a operare contro ciò che è misericordioso, leale, umano, retto e scrupoloso;
  • Un sovrano saggio non può e non deve mantenere la parola data quando ciò sarebbe a suo svantaggio;
  • Gli uomini devono essere o lusingati o eliminati, perché un uomo vendicherà prontamente un piccolo torto, ma non uno grave;
  • Un uomo dimentica più facilmente la morte di suo padre che la perdita del suo patrimonio;
  • Il modo in cui si vive e come si dovrebbe vivere sono così diversi che chi abbandona ciò che è fatto per ciò che dovrebbe essere fatto troverà la rovina, non la propria sicurezza.

Per capire quanto fossero sconvolgenti tali idee, basta confrontarle con il genere di trattati che circolavano nelle corti: gli Speculum principis, manuali che i consiglieri offrivano ai principi per dotarli di un senso soprattutto religioso e morale. Erasmo da Rotterdam, ad esempio, nel suo Educazione di un principe cristiano – scritto due anni dopo Il Principe e presentato prima a Carlo d’Aragona e poi a Enrico VIII – fondava i suoi consigli sull’idea che “Ciò che deve essere profondamente e prima di tutto radicato nella mente del principe è la migliore comprensione possibile di Cristo“. Machiavelli, al contrario, suggeriva che il modello di riferimento fosse Cesare Borgia.

C’è, tuttavia, un contesto che, se non scusa, rende più complesso il pensiero dell’autore, e che viene spesso ignorato a causa dell’efficacia aforistica dei suoi scritti. Come tutti gli artisti celebri del suo tempo (e l’arte di governare era una delle arti rinascimentali), Machiavelli attingeva a modelli pagani. C’è, però, una differenza cruciale: un pittore poteva inserire una Madonna in un portico classico senza alterare il suo significato cristiano. Ma le opere di letteratura, filosofia e politica, che scavano oltre la superficie, necessitavano di un riconoscimento del conflitto tra ideali pagani e cristiani: forza contro umiltà, vita terrena contro l’aldilà, eroe contro santo. Per Machiavelli, la scelta era scontata. La repubblica romana era per lui un’età dell’oro, e ancor prima di scrivere Il Principe, aveva iniziato un commento alla Storia di Roma di Livio, analizzando con cura il sistema romano e dimostrando inequivocabilmente di essere un repubblicano nel profondo:

Non è il bene particolare, ma il bene comune che rende grandi le città. E senza dubbio questo bene comune non è osservato da nessuna parte se non in una repubblica.

Secondo Machiavelli, la pietà cristiana aveva minato la forza necessaria per restaurare questa visione eroica del governo. La grande repubblica del suo tempo era caduta perché coloro a cui erano state affidate le sue libertà non sapevano come difenderle.

Questo non era il difetto di Borgia. Guardando con onestà la questione morale e considerando i benefici concreti, piuttosto che una reputazione costruita, Borgia non era un mostro. Senza il timore di essere ricordato per la sua crudeltà, aveva rimosso piccoli governanti deboli e corrotti, nei cui territori furti e omicidi dilagavano, e con “poche esecuzioni esemplari” aveva riportato pace e ordine. Machiavelli lo descrive come più autenticamente misericordioso rispetto ai fiorentini, che per salvaguardare la propria reputazione avevano permesso alla città di Pistoia di essere devastata da faide interne pur di evitare l’intervento armato. “Un principe, dunque, non deve temere di essere rimproverato per la sua crudeltà“. Persino Thomas More, nell’Utopia, toccava un argomento simile tre anni dopo, giustificando la crudeltà per salvare un maggior numero di vite e creando così un paradosso morale tutt’oggi rilevante. Per Machiavelli, infatti, le misure crudeli andavano usate solo per necessità e interrotte rapidamente, trasformandole poi in vantaggi tangibili per il popolo: sicurezza, protezione e prosperità. Condannava invece i sovrani che abusavano della crudeltà, come Ferdinando di Spagna, che derubò e infine espulse gli ebrei e i mori cristianizzati del suo regno. “Questi mezzi possono portare al potere“, osserva Machiavelli, ma subito aggiunge, “ma non alla gloria“.

A Machiavelli viene spesso attribuita la frase “Il fine giustifica i mezzi“. Sebbene lui non l’abbia mai espressa esattamente in questi termini, e la nozione risalga alla tragedia greca, il relativismo morale che essa implica è centrale alla sua opera. Eppure come mezzo per raggiungere i suoi obiettivi, Il Principe non sortì gli effetti sperati: non esiste prova che Giuliano de’ Medici lo abbia mai letto, e si dice che il successore a cui fu infine dedicato, il nipote di Giuliano, Lorenzo, preferì all’opera un paio di segugi.

Se giudicato come strumento per questo scopo, Il Principe fu un fallimento: ci vollero trecentocinquant’anni prima che l’ideale nazionalista di Machiavelli si realizzasse. Consapevole della radicalità delle sue idee, però, sapeva già che avrebbero incontrato resistenza. Si considerava simile ai grandi esploratori del suo tempo, con una missione “non meno pericolosa” della scoperta di “mari e continenti sconosciuti“.

Molto prima di Darwin, mostrava un mondo credibile senza paradiso o inferno, un mondo dove gli uomini erano visti come creature vicine alle bestie, e il governo terreno rappresentava l’unica speranza di miglioramento della loro condizione. Sebbene la sua opera abbia trovato qualche sporadico supporto nella storia, come tra gli antimonarchici inglesi del XVII secolo o i nazionalisti tedeschi del XIX, è solo oggi che gli studiosi hanno cominciato a separare l’uomo dalla sua reputazione. Ora una scuola di filosofi lo considera un campione della libertà intellettuale, un ponte tra il mondo antico e moderno. Eppure, ciò che sorprende di più non è il desiderio di riabilitarne l’immagine, ma ciò che il suo nome rappresenta: nelle odierne logiche aziendali e sociali, Machiavelli è diventato simbolo della vittoria a ogni costo. Solo per questo, paradossalmente, è un eroe culturale.

Dopo che tutto fu perduto“, così Machiavelli descriveva il periodo successivo alla prigionia, il fallimento nel recuperare la sua posizione e l’indifferenza del potere. Eppure, continuò a scrivere febbrilmente e in molte forme. Completò i Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio, un’ode all’ideale repubblicano letta ad alta voce ai suoi amici sempre più anti Medici, riuniti nei giardini di Palazzo Rucellai. Scrisse poesie, esercitandosi nella terza rima dantesca, e si dedicò anche al teatro. Sorprendentemente, in questi anni bui trovò uno sbocco nella commedia. C’era quella sul diavolo che temeva sua moglie; un adattamento del commediografo romano Terenzio; e soprattutto La Mandragola, una farsa satirica che raccontava di un giovane amante, un marito sciocco e un prete corrotto, tutti impegnati a ingannare la bella Lucrezia. Fu il più grande successo di Machiavelli e grazie ad esso, sette anni dopo la sua rovina, egli tornò, più o meno, nelle grazie dei Medici.

Per avere successo nella vita, sosteneva Machiavelli, un uomo deve adattarsi: repubblicano durante la repubblica, fedele ai prìncipi quando governavano i prìncipi.

Chi conforma il proprio corso alla qualità dei tempi se la caverà bene.

Da Leone X e dal cugino, Giulio de’ Medici, ricevette l’incarico di scrivere una Storia di Firenze, che lo collocava in un prestigioso circolo letterario. Ma un’altra lezione che Il Principe ci insegna è che, nonostante i suoi sforzi, “l’uomo non può deviare da ciò a cui la natura lo inclina.” Nella Storia, infatti, pur sapendo di dover lusingare i Medici, raccontava come il loro desiderio di “esercitare un potere esclusivo” avesse soffocato la libertà a Firenze.

Nel 1522, emerse un complotto, nato nella cerchia colta di Palazzo Rucellai, per assassinare Giulio de’ Medici. Molti amici di Machiavelli furono esiliati o giustiziati. Lui no: la sua fama rendeva troppo rischioso coinvolgerlo. Nel 1523, Giulio de’ Medici divenne papa Clemente VII, e affidò a Machiavelli la manutenzione delle fortificazioni di Firenze. Quando, nel 1527, i lanzichenecchi marciarono verso Roma, Firenze, preparata e difesa, fu risparmiata, e Machiavelli, in un certo senso, aveva fatto di più per la sua città di quanto immaginasse. Ma quando il regime dei Medici cadde e la repubblica fu restaurata, lui, ormai associato al vecchio governo, venne escluso dalla nuova politica. Troppo avanti con l’età per ricominciare, sviluppò disturbi allo stomaco e, poche settimane dopo, morì, circondato dai figli, dagli amici e da un prete.

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