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Perché, numeri alla mano, la COP29 è stata un altro fallimento

C’era una cifra che rimbombava nelle sale illuminate della COP29 di Baku: 300 miliardi di dollari. Era la promessa, l’obbligo, il compromesso. Un numero che doveva segnare un impegno e che invece si è trasformato nel simbolo di un fallimento. I Paesi più ricchi del mondo, riuniti per discutere il destino del pianeta, hanno concordato di finanziare con questa somma annuale, fino al 2035, la transizione energetica e l’adattamento ai cambiamenti climatici dei Paesi in via di sviluppo. Ma per molti, quella cifra è solo una goccia nell’oceano; le richieste erano ben diverse: Africa, Caraibi, isole del Pacifico chiedevano già prima della conferenza un finanziamento vicino ai mille miliardi di dollari

Il documento uscito da Baku parla di fondi pubblici, integrati da investimenti privati e “fonti alternative” come possibili tasse globali, ancora allo studio. Eppure, il cuore del problema rimane intatto: la dipendenza dai combustibili fossili. La transizione energetica promessa dalla COP28 di Dubai è scomparsa dalle pagine principali. Non c’è traccia di un impegno vincolante per abbandonare petrolio, gas e carbone. I leader hanno applaudito l’accordo, ma le voci che si levavano dai corridoi dicevano altro.

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Le critiche dai Paesi più vulnerabili

I più delusi, come sempre, sono stati i Paesi che hanno meno risorse e che affrontano quotidianamente le devastazioni del cambiamento climatico. L’India ha liquidato la somma di 300 miliardi come “irrisoria“. I rappresentanti africani, con toni cupi, hanno definito l’accordo con un laconico “troppo poco, troppo tardi“. I piccoli Stati insulari, che vedono il loro territorio scomparire sotto l’innalzamento dei mari, hanno protestato, accusando i negoziati di ignorarli. “Non siamo stati consultati“, hanno lamentato, solo per essere poi persuasi a non bloccare l’accordo finale.

Lo stesso António Guterres, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha ammesso amaramente che si aspettava di più. Per non parlare degli attivisti e delle ONG che hanno puntato il dito contro la massiccia presenza dei lobbisti dei combustibili fossili, un’ombra inquietante che aleggiava su ogni discussione. La Cina, intanto, si è tenuta fuori dalla lista dei Paesi che dovrebbero contribuire finanziariamente, consolidando il divario tra potenze economiche e nazioni in difficoltà.

La visione ottimista dell’Occidente

Eppure, c’è chi ha salutato l’accordo come un passo avanti. L’Unione Europea, ad esempio, ha parlato di una “nuova era” nella finanza climatica per i Paesi più poveri. Un’opinione che, tuttavia, sembra più un tentativo di salvare la faccia che un’analisi realistica dei fatti. La strada da Baku a Belem, dove si terrà la COP30, è stata delineata con un’ambiziosa roadmap per raccogliere 1,3 trilioni di dollari entro il 2035. Ma gli strumenti per raggiungere questa cifra appaiono fragili e privi di garanzie concrete.

Mentre i leader mondiali discutevano di finanziamenti e strategie, la scena globale raccontava una realtà diversa. Gli Stati Uniti, con il ritorno di Donald Trump alla presidenza, potrebbero abbandonare nuovamente gli impegni climatici. L’Europa e altri Paesi occidentali sono concentrati su crisi geopolitiche come quella in Ucraina e il conflitto in Medio Oriente. La sostenibilità e la lotta al cambiamento climatico scivolano così sempre più in basso nelle priorità politiche, diventando un tema secondario in un mondo che sembra preferire investire in armamenti piuttosto che in energie rinnovabili.

Non pensavo che il mondo avrebbe superato la soglia di 1,5°C con tale disinvoltura come stiamo facendo oggi. Due decenni fa, nessuno avrebbe pensato fosse possibile.

Rob Jackson, presidente del Global Carbon Project

Due decenni fa c’erano già le COP, ma questa è stata la prima sopra +1,5°C. E a stento se n’è parlato. 

Tre numeri, una storia di fallimenti

I numeri di Baku raccontano la stessa storia. Tre cifre riassumono l’essenza di questa conferenza.

  • 300 miliardi di dollari: la cifra che i Paesi sviluppati hanno concordato di stanziare annualmente per sostenere i Paesi in via di sviluppo. Un budget che, come hanno sottolineato le ONG, rappresenta la metà di quanto richiesto e che, con l’inflazione, appare sempre più insufficiente. È una promessa vuota, priva del coraggio necessario per affrontare la portata della crisi.
  • 1,3 trilioni di dollari: l’obiettivo ambizioso per il 2035. Un traguardo che richiede contributi pubblici e privati, ma che appare come un miraggio senza strumenti concreti per essere realizzato. È un numero scritto su carta, ma privo del peso della realtà.
  • 196 Paesi: le nazioni rappresentate alla COP29. Tredici giorni di negoziati, compromessi e tensioni culminati in un accordo che molti hanno definito un “insulto”. La definizione di un mercato globale del carbonio controllato dall’ONU è l’unica vittoria tangibile, ma resta da vedere se sarà sufficiente per colmare il divario tra aspettative e risultati.

Il primo dato da mettere in prospettiva rispetto ai 300 miliardi di dollari all’anno promessi dalla COP29 per sostenere i Paesi in via di sviluppo è questo: 600 milioni di persone in Africa non hanno accesso all’elettricità. Questo significa che oggi quasi il 43% della popolazione di un intero continente vive in una realtà energetica che l’Europa ha superato alla fine del XIX secolo. Mentre il Nord del mondo è impegnato a gestire le conseguenze climatiche delle sue rivoluzioni industriali, ampie regioni dell’Africa non hanno nemmeno cominciato quel percorso. Secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA), nazioni come Ghana, Kenya e Rwanda prevedono di fornire accesso universale all’elettricità entro il 2030. La domanda quindi sorge spontanea: quale sarà la fonte di quella nuova elettricità? Sarà alimentata dal carbone, dal gas o dalle energie rinnovabili?

Se quei 300 miliardi di dollari annuali non verranno realmente investiti in infrastrutture per l’energia pulita in queste nazioni, il risultato sarà disastroso: un continente che entra nella modernità energetica affidandosi ai combustibili fossili. Questo è il paradosso della giustizia climatica: chi ha meno responsabilità storiche per il cambiamento climatico è costretto a fare scelte che il Nord del mondo ha evitato per decenni.

L’influenza dell’industria fossile

La presenza dell’industria dei combustibili fossili è stata significativa, influenzando ogni decisione e spingendo per mantenere lo status quo. “Abbiamo perso un’altra occasione per staccarci dalla dipendenza dai fossili“, ha dichiarato un attivista, riassumendo il sentimento di molte ONG.

La scomparsa della transizione energetica dai testi principali del documento di Baku ne è stata la prova più evidente. Nonostante le promesse di Dubai, il mondo continua a rimandare l’inevitabile: la necessità di abbandonare petrolio, gas e carbone.

Il futuro della lotta climatica

CLIMATE ACTION TRACKER
Le stime di Climate Action Tracker suggeriscono, nella migliore delle ipotesi, un aumento di 1,8°C entro il 2100

Baku non è stata una conferenza che ha ispirato. Non ha prodotto un momento di svolta, né ha risposto alle sfide più urgenti del nostro tempo. È stata, come hanno detto in molti, la “liquidazione fallimentare” dei Paesi più ricchi dopo anni di impegni mancati. Un altro capitolo in una lunga storia di compromessi e promesse non mantenute.

Le ultime stime di Climate Action Tracker suggeriscono che gli attuali impegni per il 2030 si tradurranno in un aumento della temperatura media globale di 2,4°C entro il 2100, pericolosamente superiore all’obiettivo di 1,5°C formalizzato. dall’Accordo di Parigi. Nello scenario migliore si prevede un aumento di 1,8°C. Come avverte Climate Action Tracker:

Gli sforzi globali per limitare il riscaldamento a 1,5°C stanno fallendo su tutta la linea, con i recenti progressi compiuti su ogni indicatore – ad eccezione delle vendite di autovetture elettriche – che sono significativamente indietro rispetto al ritmo e alla portata necessari per affrontare il problema climatico.

La domanda è semplice: c’è ancora speranza? Con il tempo che scorre inesorabilmente e il pianeta che continua a riscaldarsi, la lotta al cambiamento climatico sembra sempre più un’impresa disperata. Ma forse, proprio in questa disperazione, può nascere una nuova urgenza, una determinazione a fare ciò che fino ad ora è mancato: agire con coraggio e decisione.

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