cultura bomba atomica

L’impronta culturale della bomba atomica

Era il 6 agosto 1945 quando un’arma mai vista prima, sganciata su Hiroshima, ridisegnò il volto della guerra e della politica mondiale. Tre giorni dopo, Nagasaki conobbe lo stesso destino. Gli Stati Uniti, guidati da un’esigenza di supremazia geopolitica e determinati a chiudere la Seconda Guerra Mondiale, avevano mostrato al mondo l’orrore e il potere assoluto dell’atomo. La seconda guerra mondiale aveva segnato l’apice del connubio tra scienza applicata e necessità militari; Auschwitz e Hiroshima erano l’eredità che il mondo aveva lasciato dopo il 1945. Filosofi come Theodor Adorno, scrittori come Elie Wiesel, e scienziati come Robert Oppenheimer si trovarono di fronte al dilemma del dopo: il loro mestiere dopo quell’orrore poteva ancora avere un senso?

La Guerra Fredda prese forma come conseguenza diretta della potenza atomica. Gli Stati Uniti, inizialmente unici detentori della tecnologia nucleare, si trovarono presto a confrontarsi con l’Unione Sovietica, che fece detonare la sua prima bomba atomica nel 1949. Fu la conferma che il mondo era diventato un campo di battaglia ideologico e tecnologico. I due blocchi si fronteggiarono con l’ossessione della deterrenza: chi avrebbe posseduto più testate nucleari? Chi avrebbe avuto missili più potenti? I negoziati e le conferenze sul disarmo si alternavano a prove di forza nelle quali ogni esplosione atomica era un segnale politico. In un’escalation inquietante, nel 1961 i sovietici fecero detonare la Bomba Zar, la più potente arma nucleare mai costruita, capace di sprigionare 50 megatoni di pura devastazione. Eventi come la crisi dei missili di Cuba del 1962 portarono il pianeta sull’orlo della distruzione totale. Per tredici giorni, il mondo trattenne il fiato mentre John F. Kennedy e Nikita Krusciov giocavano una partita diplomatica che avrebbe potuto significare l’annientamento reciproco.

Non fu un caso che sia Oppenheimer che Andrej Sacharov (le menti che avevano guidato la costruzione della bomba atomica negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica) si impegnarono su posizioni di pubblico dissenso dai rispettivi governi (finendo entrambi per rimanere vittime di persecuzioni). Ma il pericolo nucleare non si limitava agli Stati Uniti e all’URSS. La proliferazione atomica si espanse a Paesi come il Regno Unito, la Francia e la Cina, creando un equilibrio del terrore che avrebbe definito la politica internazionale fino alla fine del XX secolo.

Era una problematica che non restò confinata agli ambiti diplomatici. Entrò nei sogni, nei timori e nelle aspirazioni di un’intera generazione. Nel romanzo Doktor Faust (1948), Thomas Mann tracciava la parabola della musica matematica, il miraggio di un’arte pura e incontaminata, finita con l’asservimento al potere del demonio. Romanzi come Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, 1984 di George Orwell e Il mondo nuovo di Aldous Huxley delineavano società distopiche forgiate dal totalitarismo e dal controllo tecnologico, paure amplificate dalla logica della Guerra Fredda. Il panico dell’apocalisse atomica ispirò capolavori come A Canticle for Leibowitz di Walter M. Miller Jr., che immaginava un futuro post-apocalittico in cui una civiltà tentava di ricostruire il sapere scientifico perduto dopo una catastrofe nucleare. Anche La strada di Cormac McCarthy, pubblicato molti anni dopo, riprese il tema dell’olocausto nucleare, rappresentando un mondo devastato in cui padre e figlio lottano per la sopravvivenza.

Ad esasperare ancora quest’angoscia sul futuro intervenne Jean Paul Sartre, che nel 1960 con Critica della ragione dialettica aveva approfondito l’analisi sul rapporto tra libertà e responsabilità, angoscia individuale e solidarietà collettiva. Una desolazione umana non limitata, però, a un ristretto dialogo tra filosofi e scienziati, ma un sentimento più profondo e massivo. Ladri di biciclette (1948) e tutto il neorealismo italiano furono i primi a esprimere quest’altalena di speranze e paure, a cui si aggiunse anche la cinematografia di Akira Kurosawa (Rashomon, 1950; I sette samurai, 1954), che esprimeva la necessità di fuggire dal presente e riprendere le radici morali del Giappone antico.

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Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick (1964)

Anche Hollywood non rimase del tutto immune. Già nel 1951, il film Ultimatum alla Terra raccontava l’arrivo di un messaggero extraterrestre inviato per ammonire l’umanità sui rischi dell’autodistruzione nucleare. Il terrore atomico trovò espressione anche nell’iconico Godzilla (1954), che simboleggiava le devastazioni della bomba atomica subite dal Giappone. Il gigantesco rettile, risvegliato dai test nucleari, diventò un’allegoria vivente del trauma collettivo. Era la vendetta della natura contro l’arroganza scientifica. Più di tutti, però, fu Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick (1964), che mise in ridicolo la follia della corsa agli armamenti. Il titolo completo Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb (Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba, in italiano), era il tentativo di sdrammatizzare una situazione parossistica di paura che portò diversi americani ed europei a dotarsi persino di rifugi antiatomici. 

Nel contesto dell’imminente distruzione del mondo, l’ipocrisia, le incomprensioni, la lascivia, la paranoia, l’ambizione, gli eufemismi, il patriottismo, l’eroismo e anche la ragionevolezza possono evocare un’orribile risata.

Stanley Kubrick

Ma negli USA questo filone rimase secondario rispetto al tentativo di raccontare la sorridente e fiduciosa American way of life, come nei film di Frank Capra (La vita è meravigliosa, 1946); un modello che restituiva vigore al liberismo europeo tragicamente sconfitto, come teorizzò Karl Popper in La società aperta e i suoi nemici (1945). 

Il diffondersi della televisione, l’emancipazione femminile, l’espansione urbana e industriale e lo spostamento del baricentro culturale dall’Europa agli Stati Uniti cambiarono i confini stessi della cultura. Le città divennero oggetto di studio di architetti come Le Corbusier (Chandigarh, 1951) e Oscar Niemeyer (Brasilia, 1960), mentre le giovani generazioni emersero come protagoniste del mercato letterario, filmico e discografico. Nuovi miti si prorogarono, dal James Dean di Gioventù bruciata (1955) al giovane Holden di Salinger (1961). E quando nel 1959 il trentunenne Che Guevara e il trentaduenne Fidel Castro presero il potere a Cuba, e l’anno seguente John F. Kennedy divenne il più giovane presidente della storia degli Stati Uniti, sembrò che i tempi fossero maturi per un nuovo futuro, lontano dalle paure del passato. Persino sotto la crosta del ghiaccio sovietico si mosse qualcosa: nel 1954 uscì Il disgelo di Ilja Ehrenburg e nel 1957 Il dottor Živago di Boris Pasternak. Ma queste speranze furono presto disilluse.

Nello stesso anno in cui clandestinamente usciva il capolavoro di Pasternak, il sociologo Vance Packard pubblicò il saggio I persuasori occulti, che mostrò il potere della pubblicità di manipolare le scelte dei consumatori. I massa media divennero allora oggetto di studio; Marshall McLuhan (Il medium è il messaggio, 1967) coniò la fortunata immagine del “villaggio globale” per descrivere un mondo che, dopo il lancio del satellite Telstar nel 1962, rese possibile la mondovisione, ovvero il collegamento televisivo in tutto il pianeta. Herbert Marcuse, poi, nel saggio L’uomo a una dimensione (1964) tratteggiò la fisionomia di una società opulenta e totalitaria che, grazie alla manipolazione del consenso operata dai mezzi di comunicazione, non aveva bisogno di ricorrere alla repressione violenta per neutralizzare il dissenso. E questo appiattimento non tardò ad essere raccolto dalle arti visive. Negli anni Sessanta Andy Warhol e Roy Lichtenstein furono i massimi esempi della Pop Art (“arte popolare” nel duplice senso del contenuto e del pubblico a cui era rivolta), che riproduceva in modo fedele e anonimo oggetti tipici del consumo di massa: dalla lattina della Coca Cola alla minestra in scatola. La Pop Art trasformò la bomba atomica in un’icona della cultura pop, riducendo la più grande minaccia dell’umanità a un’immagine ripetuta e consumabile. Era il segno di una società che interiorizzava l’orrore trasformandolo in merce. Anche artisti come Jasper Johns e Robert Rauschenberg giocarono con simboli di potere e distruzione, mescolando politica e arte in un linguaggio nuovo e inquietante.

Agli inizi degli anni Sessanta un cantautore folk iniziò ad esibirsi in vari club del Greenwich Village, il quartiere degli artisti di New York; il suo nome era Bob Dylan e cantava brani come A Hard Rain’s A-Gonna Fall, evocando immagini di devastazione e apocalisse nucleare, e The Times They Are a-Changin’, che anticipava temi che sarebbero esplosi poi con le proteste giovanili del Sessantotto. 

Volevo scrivere una grande canzone, una sorta di canzone a tema, sai, con versi brevi e concisi che si accumulavano l’uno sull’altro in una maniera ipnotica… il movimento dei diritti civili ed il movimento della folk music furono abbastanza vicini ed alleati per un certo periodo in quell’epoca. Quasi tutti si conoscevano tra di loro. Dovetti suonare questa canzone la stessa sera che il Presidente Kennedy morì.

Bob Dylan

Nel 1965 P.F. Sloan pubblicò il brano Eve of Destruction, la canzone di protesta per antonomasia. Il brano è un grave avvertimento di un’apocalisse imminente, in cui vengono espresse le frustrazioni e le paure dei giovani del periodo della Guerra Fredda, del Vietnam e della guerra nucleare. All’epoca i mass media americani contribuirono a rendere popolare la canzone, indicandola come un esempio di tutto ciò che era sbagliato nella gioventù di quel tempo. Si era creata così una controcultura undergroud le cui radici risalivano alla Beat generation degli scrittori Allen Ginsberg e Jack Kerouac; una cultura giovanile, alternativa, del disincanto e della protesta civile, asociale e anticonformista, fatta di musica e droghe che trovava il suo epicentro nella west coast americana, descritta magistralmente da Michelangelo Antonioni in Zabriskie Point (1970).

La Beat Generation è un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo.

Jack Kerouac

Nel 1973, ai tradizionali campi di sviluppo del nucleare e dell’informatica, la scienza aggiunse quello della biologia con la scoperta della struttura a doppia elica del DNA. Si aprì allora un nuovo terreno di intervento fondato sul ricorso alle biotecnologie. Lo spettro di Frankenstein fuoriusciva dal mondo dell’immaginazione e diventava, per la prima volta nella storia, una concreta possibilità.

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