Pablo Larraín, con il suo nuovo film Maria, conclude la trilogia di biopic dedicata ad alcune delle più importanti figure femminili del XX secolo, dopo Jackie e Spencer. Eppure nonostante l’intensa interpretazione di Angelina Jolie, il film non riesce a rendere giustizia alla leggendaria Maria Callas. Il risultato è un’opera visivamente accattivante ma carente nella profondità necessaria a esplorare l’essenza della celebre cantante.
La storia si concentra sull’ultima settimana di vita del soprano, trascorsa nel suo lussuoso appartamento parigino, circondata da un piccolo staff: Ferruccio, un maggiordomo che funge da tuttofare; Bruna, la cuoca e governante; e Ronald, un pianista che diventa il suo confidente musicale. La narrazione si apre con la morte della cantante e procede a ritroso esplorando il suo decadimento fisico ed emotivo. Maria lotta con la dipendenza dal Mandrax, un sedativo che la tormenta con allucinazioni, mentre cerca di riappropriarsi della sua arte attraverso intense sessioni di lavoro con Ronald. Queste scene, in cui tenta di cantare con la voce ormai segnata dal tempo, sono tra le più potenti del film. Meritano particolare attenzione, poiché catturano il cuore pulsante del film: il dramma di un’artista che cerca di ricostruire la propria arte per ritrovare se stessa. È in questi momenti che Larraín dimostra la sua maestria, creando un dialogo intimo tra storia e arte. Questa capacità di esplorare tensioni umane e morali nei dettagli più sottili è già emersa in alcuni dei suoi lavori cileni più acclamati, come No, che racconta la creazione di una campagna pubblicitaria decisiva per porre fine alla dittatura di Augusto Pinochet, e The Club, dove un rifugio per preti caduti in disgrazia diventa teatro di intensi confronti con un rappresentante della Chiesa.
Nonostante questi momenti di autenticità, però, il film si disperde in cliché e soluzioni narrative superflue. L’escamotage di un “intervistatore immaginario”, nato dalla mente alterata di Maria, diventa un pretesto per introdurre flashback stilisticamente ricchi ma narrativamente vuoti. Episodi del passato, come l’adolescenza nella Grecia occupata dai nazisti o la sua relazione con Aristotele Onassis, sono trattati in modo sensazionalistico, a discapito di un maggior approfondimento sui temi centrali legati alla sua carriera artistica.
La relazione con Onassis, in particolare, occupa troppo spazio. Pur essendo una parte importante della vita dell’artista, il film fallisce nel collegare questi eventi personali al suo declino artistico. Le feste sontuose e i drammi sentimentali vengono enfatizzati, mentre i veri conflitti che plasmarono la sua arte restano in ombra. La regia di Larraín, seppur visivamente sofisticata, punta più sull’adulazione del personaggio che sull’esplorazione del lavoro e della dedizione che hanno reso la Callas una leggenda.
Angelina Jolie rappresenta il vero punto di forza del film. La sua interpretazione cattura la vulnerabilità e la forza della cantante, rendendo credibili i momenti di maggior sofferenza, in cui lei lotta per ritrovare la sua voce. Jolie ha dedicato mesi allo studio del canto operistico e canta personalmente in molte scene, conferendo autenticità al personaggio. Ma nonostante il suo straordinario impegno, nemmeno la performance dell’attrice può compensare le debolezze della sceneggiatura. Le scene musicali, benché potenti, restano frammentarie e non riescono a rappresentare pienamente la complessità del processo creativo del soprano.
Sebbene la carriera lirica della Callas terminò in sostanza nel 1965 (l’anno della sua ultima esibizione operistica in scena), rimase, nel bene e nel male, una cantante fino alla fine. Fu una figura controversa anche nel suo apice artistico, che incarnava l’essenza dell’incompreso, propria dei grandi artisti. La sua voce non era convenzionalmente bella, ma straordinariamente espressiva e originale, costruita sul rischio (scelta consapevole per trasformare il senso musicale in dramma e i personaggi in interpretazioni profondamente personali). La sua arte si fondava sul pericolo e sull’abbandono, una libertà espressiva che pochi osano perseguire. Persino i suoi problemi vocali, già evidenti negli anni Cinquanta, riflettevano un dramma che avrebbe meritato maggiore attenzione. Invece, Larraín si concentra su vicende sentimentali apparentemente operistiche, ignorando che le vere avventure di Callas erano quelle della sua voce. È per questo che le scene con il pianista Ronald, come quella in cui appare un registratore a cassette, offrono un barlume di ciò che il film avrebbe potuto essere: un ritratto intimo e avvincente del legame tra arte e vita.