Marwan Barghouti

Marwan Barghouti, il prigioniero più importante del mondo

Leader politico, attivista, e figura militante palestinese, Marwan Barghouti è stato condannato oltre due decenni fa, accusato di aver orchestrato operazioni in cui persero la vita cinque civili. Da allora, la prigione è la sua casa, ma il suo nome continua a risuonare nei cuori e nelle menti dei palestinesi, che lo considerano il loro leader più carismatico e potenzialmente decisivo.

Un sondaggio pubblicato a marzo 2024 dal ricercatore palestinese Khalil Shikaki ha confermato la sua popolarità: se oggi si tenessero le elezioni, Barghouti riceverebbe più voti di entrambi i suoi principali rivali messi insieme. Quando, nell’attacco del 7 ottobre, Hamas sequestrò 250 ostaggi israeliani, il nome di Barghouti riemerse con forza, alimentando le speculazioni su uno scambio di prigionieri che potrebbe portare alla sua liberazione.

Marwan Barghouti

Per i comandanti di Hamas, è un modello, nonostante appartenga ad Al Fatah. Per i sostenitori di una soluzione a due Stati, Barghouti rappresenta una speranza. Persino alcuni politici israeliani, come Ami Ayalon, ex capo dello Shin Bet, lo vedono come un potenziale partner per la pace:

È nel nostro interesse che gareggi nelle prossime elezioni palestinesi: prima avverrà, meglio sarà.

La storia di Barghouti comincia a Kobar, un villaggio della Cisgiordania circondato da insediamenti israeliani. Nato nel 1959, in una Palestina ancora sotto il controllo giordano, crebbe in una casa affollata con nove familiari, con poche opportunità e molte speranze. Nel 1967, con l’occupazione israeliana della Cisgiordania durante la guerra dei Sei Giorni, la sua vita cambiò radicalmente. A otto anni, vide le prime manifestazioni di oppressione: vicini arrestati per aver sventolato bandiere palestinesi, soldati israeliani che uccidevano il cane di famiglia per il solo fatto di abbaiare. Barghouti si avvicinò presto alla politica, unendosi al partito comunista, che predicava la resistenza non violenta e la soluzione dei due Stati. Da giovane, guidava le marce a Ramallah e aiutava il padre a costruire case, unendo il pragmatismo della vita quotidiana a una visione più ampia di giustizia sociale.

La rivolta popolare scoppiata nel dicembre 1987, nota come prima Intifada, rappresentò un momento cruciale nella storia del conflitto israelo-palestinese. Nata spontaneamente nel campo profughi di Jabalia, nella Striscia di Gaza, si diffuse rapidamente anche in Cisgiordania, coinvolgendo migliaia di palestinesi in una lotta protrattasi fino al 1993. Fu una rivolta unica, caratterizzata dal coinvolgimento di ampie fasce della popolazione, inclusi giovani, donne e anziani, che adottarono metodi di resistenza prevalentemente non armata. Tra le conseguenze politiche più significative vi fu la decisione del re Husain di Giordania di rinunciare a qualsiasi rivendicazione sulla Cisgiordania, e la proclamazione unilaterale da parte dell’OLP dello Stato di Palestina nel novembre 1988.

Nel 1977, a soli 18 anni, Barghouti fu arrestato durante un raid notturno nella sua casa a Kobar. Le guardie carcerarie gli misero un sacco sporco in testa, lo spogliarono e gli picchiarono i genitali con un bastone fino a farlo svenire, come lui stesso ha affermato. Quando si riprese, lo presero in giro dicendogli che non sarebbe stato in grado di avere figli. Trascorse quattro anni e mezzo in prigione, dove imparò l’ebraico e iniziò a leggere voracemente. Quando fu rilasciato, sposò Fadwa, l’amore della sua giovinezza e futura portavoce, e si iscrisse all’Università di Bir Zeit, dove studiò storia e politica. Negli anni Ottanta, entrò e uscì di prigione più volte, consolidando il suo status di figura influente in Al Fatah, la principale fazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Nel 1987, assieme a parte della dirigenza di Al Fatah, fu espulso dal Paese e si trasferì in Giordania, dove continuò a coordinare le attività del movimento durante la Prima Intifada.

In modo inatteso, si ritrovò a interagire e persino a socializzare con politici israeliani. Gli Accordi di Oslo, sostenuti con entusiasmo dai governi occidentali, avevano aperto la strada a una serie di conferenze e incontri per la costruzione della pace. Questi incontri misero intorno allo stesso tavolo israeliani e palestinesi, creando, in alcuni casi, legami autentici e personali.

Barghouti, grazie al suo perfetto ebraico, era a suo agio in queste circostanze. Dopo essere stato eletto al primo parlamento palestinese nel 1996, partecipò con energia a queste riunioni, dimostrando un umorismo contagioso che contribuì a rompere le barriere. Durante un incontro con la delegazione palestinese in un ristorante sulla spiaggia di Tel Aviv, esclamò scherzosamente: “Tra noi abbiamo 145 anni di prigione“. Gideon Ezra, ex capo dell’intelligence israeliana, gli rispose con altrettanto spirito: “E sono stato io a mettervi tutti lì!

Purtroppo i negoziati, che avrebbero dovuto aprire la strada a uno Stato palestinese, si trascinarono senza risultati concreti. Mentre la disillusione prendeva piede, Barghouti, promosso a segretario generale di Al Fatah in Cisgiordania, visitò Israele e Palestina, avvertendo che i moderati come lui sarebbero stati emarginati se il processo di Oslo non fosse riuscito a creare uno Stato palestinese. Gli fu dato il compito di dirigere i Tanzim, gli attivisti di base che avevano guidato le proteste durante l’intifada e che fungevano da forza di Al Fatah nelle strade. Nel luglio 2000 Bill Clinton organizzò un summit per delineare un accordo definitivo tra israeliani e palestinesi. L’atmosfera fu tesa fin dall’inizio e i colloqui si interruppero sullo status di Gerusalemme, tra le altre questioni irrisolvibili. Entrambe le parti sapevano che la conseguenza del mancato accordo sarebbe stata la violenza. L’innesco fu una visita provocatoria di Ariel Sharon, il leader del Likud, al Monte del Tempio a Gerusalemme, il sito di una delle moschee più sacre dell’Islam nonché il luogo più sacro dell’Ebraismo. Barghouti e i suoi erano lì ad aspettarlo. Denunciarono furiosamente Sharon e lanciarono sedie contro la sua scorta di sicurezza. La seconda intifada era iniziata.

La seconda Intifada, o Intifada di al-Aqsa, iniziò nel settembre 2000 in risposta al crescente malcontento palestinese per il mancato rispetto degli Accordi di Oslo del 1993 e per l’espansione degli insediamenti israeliani. Diversamente dalla prima Intifada, caratterizzata da disobbedienza civile, questa rivolta si militarizzò rapidamente, con il ricorso ad armi da fuoco e attentati suicidi, e fu seguita da una dura repressione israeliana, condannata dalle Nazioni Unite e dalla comunità internazionale.

Verso la fine del 2000, Barghouti aiutò Arafat a creare un’ala militare dei Tanzim, la Brigata dei Martiri di al-Aqsa. I suoi vecchi amici israeliani cercarono di allontanarlo dalla militanza. “L’ho avvisato, l’ho chiamato, gli ho detto ‘stai lontano, non toccare il terrore‘”, ha dichiarato Shitreet, che all’epoca era ministro della giustizia. Ma Barghouti voleva dimostrare che l’occupazione aveva un costo. In piena clandestinità, in un editoriale sul Washington Post scrisse:

Se i palestinesi devono negoziare sotto l’occupazione [israeliana], allora Israele deve negoziare mentre noi resistiamo a questa occupazione. Non sono un terrorista, ma non sono nemmeno un pacifista. […] Non voglio distruggere Israele, ma voglio porre fine all’occupazione del mio Paese.

Nel 2002, fu catturato durante un’operazione dell’intelligence israeliana. Fu accusato di essere responsabile di 37 attacchi e dichiarato colpevole di cinque omicidi. Nonostante le accuse, il processo gli diede una piattaforma per ribadire il suo messaggio politico. Dichiarò: “Sono un combattente per la pace per entrambi i popoli.

La sua prigionia non lo fermò. Trasformò la prigione in un centro di apprendimento, organizzando corsi universitari per oltre 1.200 detenuti. Scrisse una tesi di dottorato sulla democrazia palestinese e divenne un simbolo vivente della resistenza.

Dopo la morte di Yasser Arafat, considerò per due volte la possibilità di candidarsi come indipendente alle elezioni palestinesi, nonostante fosse in prigione, ma entrambe le volte, fu persuaso a rimanere fedele all’organizzazione fondata dal suo mentore. Nel 2006, la sua capacità di dialogo con diverse fazioni politiche divenne cruciale. In quell’anno, i palestinesi parteciparono alle loro seconde elezioni legislative, un evento che sconvolse l’equilibrio politico nella regione perché Hamas, sfidando ogni previsione, ottenne una schiacciante vittoria. Mahmoud Abbas, allora presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), si trovò in una posizione delicata: pur non volendo includere gli islamisti nel governo, ignorare il risultato elettorale sarebbe stato percepito come un atto antidemocratico.

Barghouti, rinchiuso nella prigione di Hadarim, un carcere pensato per ospitare l’élite politica palestinese, crocevia di leader di Al Fatah e Hamas, aveva già avviato contatti strategici. Riuscì a mediare tra le fazioni, lavorando a un documento che avrebbe potuto cambiare il panorama politico. Si trattava del Documento dei prigionieri, pubblicato a maggio 2006.

Il documento proponeva la creazione di un governo di unità nazionale e promuoveva una forma di “resistenza” limitata ai territori occupati oltre la linea verde. Era un progetto ambizioso che delineava uno Stato palestinese democratico, con uguali diritti per tutti, comprese le donne, e fondato sui confini precedenti al 1967. Abbas, alla disperata ricerca di legittimità dopo la vittoria elettorale di Hamas, approvò il primo passo del Documento, accettando di formare un governo di unità nazionale che includeva rappresentanti di Al Fatah, Hamas e alcuni indipendenti, con Salam Fayyad, economista di fama mondiale e già funzionario del Fondo Monetario Internazionale.

Ma le resistenze interne e le pressioni internazionali portarono al fallimento del progetto. Gli Stati Uniti sostennero un capo militare di Al Fatah a Gaza per organizzare battaglioni destinati a reprimere Hamas, ma il gruppo islamista rispose con forza. Gli scontri culminarono nella cacciata delle forze di Abbas da Gaza e nella caduta del governo di unità. Hamas consolidò il controllo sulla Striscia di Gaza, lasciando l’ANP confinata in Cisgiordania. In questo clima di tensioni, Barghouti rimase l’unico simbolo per una conciliazione e un punto di riferimento per l’intero popolo palestinese.

Era a favore della pace, completamente. Una pace vera con Israele. Avevamo rapporti molto amichevoli.

Meir Sheetrit, ex ministro ed ex parlamentare del Likud

Ancora oggi la sua immagine è dipinta sui muri dei villaggi, e il suo nome emerge in ogni bozza di discussione tra israeliani e palestinesi. Eppure le opinioni su di lui rimangono divise. Per alcuni, è un moderato che potrebbe guidare i palestinesi verso la pace, un Nelson Mandela palestinese. Per altri, è un estremista la cui liberazione rappresenterebbe un rischio (Yahya Sinwar, il leader militare di Hamas che pianificò gli attacchi del 7 ottobre, venne liberato in uno scambio di prigionieri nel 2011; molti hanno paura di commettere lo stesso errore).

Nel frattempo, le notizie su di lui sono sempre meno. Dal 2017 le autorità carcerarie israeliane hanno ridotto le visite alla sua prigione, dopo che aveva organizzato un grande sciopero della fame a cui avevano partecipato migliaia di carcerati. Perfino sua moglie, che negli anni è diventata la sua portavoce, ha detto che non lo vede ormai da un anno. L’ultima fotografia ufficiale che abbiamo di lui risale al 2012. La sua assenza dalla scena pubblica per oltre vent’anni ha alimentato il mito, ma ha anche sollevato dubbi su chi sia realmente oggi. Potrebbe essere il leader in grado di unire i palestinesi e negoziare una pace duratura? Oppure è rimasto un simbolo intrappolato nel passato, incapace di adattarsi a una realtà in continua evoluzione?

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