“Non devono mai capire che hai paura“, queste sono le parole che il padre di Samia pronuncia per incoraggiarla a non sospendere la propria gara contro il processo di regressione in guerra civile che interessò la Somalia durante gli anni Novanta. Queste sono le parole che Yasemin Şamdereli, regista di Non dirmi che hai paura fa dire al padre della giovane ragazza che sognava di diventare la ragazza più veloce del mondo. Tratto dall’omonimo bestseller di Giuseppe Catozzella, il film ripercorre con vivacità la vita di Samia Yusuf Omar, velocista somala tragicamente scomparsa nel 2012 in mezzo al Mediterraneo cercando di raggiungere l’Italia, e quindi Londra, in vista delle Olimpiadi dello stesso anno.
“Una storia che raccoglie le storie di tutti“, dice alla presentazione milanese del film Giuseppe Catozzella in veste di co-sceneggiatore oltre che di autore del romanzo. La storia di Samia una volta conosciuta diventa un punto di vista intimo su una tragedia di proporzioni allarmanti e quotidiana dei nostri giorni.
Se la storia di Samia infatti colpisce per la sua singolarità, è l’universalità ad affondare un colpo allo stomaco dello spettatore. Una regia essenziale che premia una densità di sfumature, ci racconta di una bambina e il suo sogno di essere la ragazza più veloce del mondo, ci racconta una famiglia somala che vive in un Paese emancipato (all’inizio del film si racconta della madre ex calciatrice negli anni Settanta) che si dilania in una svilente guerra civile.
Il libro è stato scritto quando si conosceva ancora poco la drammaticità degli sbarchi dalla coste libiche dei migranti centro-africani ed è quindi molto presente tra le pagine, racconta lo stesso Giuseppe Catozzella, mentre nella resa cinematografica Yasemin Şamdereli ha preferito una narrazione che non desse risalto alla spettacolarizzazione del dolore, ma che risultasse più intima, più familiare, più normale. Questo permette al film di avere un incedere lieve, sognatore, per certi versi gode di un esotismo naturale, grazie alla ricostruzione perfetta di luoghi ed atmosfere della Mogadiscio degli anni Novanta. Questo nonostante il film vada a ritroso. Nella prima scena, infatti, troviamo Samia ai blocchi di partenza della gara olimpica di Pechino 2008, quindi il terribile epilogo di questa storia è dichiarato immediatamente.
Risalendo invece la narrazione in senso cronologico, troviamo Samia bambina che gareggia con il cugino per arrivare prima scuola, fotogrammi di una vita “normale” con la sua famiglia allargata, nello scorrere della quotidianità. Qui possiamo apprezzare il lavoro di scrittura e le scelte stilistiche della regista, che usa una perfetta mimetizzazione della storia con la Somalia di quegli anni, intervallando scene ricostruite a piccoli frammenti tratti da telegiornali e notiziari radiofonici. Questa scelta permette allo spettatore di sentirsi coinvolto dalla poesia di alcuni aspetti del racconto pur rimanendo sempre collegato alla realtà storica dell’epoca, in continuo rimando tra normalità quotidiana e invadenza della guerra civile.
Uno degli aspetti più poetici e più coinvolgenti emotivamente è di sicuro il rapporto tra Samia e il padre: un padre innamorato dei sogni della figlia, che non vuole accettare che un mondo circostante in frantumi distrugga la bellezza dello sguardo di una bambina. Purtroppo sarà proprio lui a pagare sulla propria pelle la violenza della guerra civile, ma quello sguardo, quell’ottimismo, scambiato per debolezza persino dai figli, sarà l’orizzonte verso cui punterà Samia e con lei tutti coloro che non smisero (e non smettono) di sperare in una società più giusta.
Suggellato nella scena finale, il rapporto tra Samia e suo padre è l’emblema dello spirito del cambiamento, della resistenza alle storture del mondo, in nome di un’idea di libertà, di realizzazione dei propri sogni, della propria persona. Sì, perché Samia alla fine non vince (o forse si?), ma comunque realizza la sua idea di libertà al di là del successo personale. Questo elemento rende la storia di Samia, come già detto da uno dei suoi sceneggiatori, una storia normale e speciale allo stesso tempo, dove l’importante non è per forza il successo, ma l’affermazione dell’identità personale. In una scena vicina al finale si scopre che anche la sorella di Samia è fuggita dalla Somalia, anche qui la ragione è singolare ma allo stesso tempo universale: da cantante i tumulti politici l’avevano resa muta.
A proposito del silenzio che doveva regnare nella Mogadiscio in mano a branchi di guerriglieri è importante sottolineare la scelta di una colonna sonora delicata ed elegante che arricchisce ma mai sovrasta la narrazione. Alla potenza si preferisce la corda tesa, che sia berimbao o chitarra, come a sottolineare la fragilità della normalità. Non è un caso che a firmare la colonna sonora sia Rodrigo D’Erasmo, polistrumentista e compositore, che però amiamo ricordare in questa sede come violinista d’eccezionale emotività, vista la capacità di costruire una colonna sonora fragile come il destino di Samia.
Abbiamo cercato di descrivere l’infanzia gioiosa di una bambina che inseguiva il suo sogno, giocando con sonorità dalla matrice africana e alcuni strumenti della mia tradizione brasiliana, creando un unico grande territorio etnico musicologico.
Rodrigo D’Erasmo
Non dirmi che hai paura già premiato al Tribeca Film Festival di New York e al Munchen Filmfest, e al Silk Road International Festival (Cina), dal 5 dicembre è in tutte le sale italiane.