Già all’inizio del XVII secolo, gli inglesi iniziarono a mettere piede in India grazie alla British East India Company (EIC). Nata come semplice impresa commerciale, la Compagnia nel giro di pochi decenni cominciò a espandersi, trasformandosi da potenza mercantile a vero e proprio impero territoriale. Inizialmente limitata alle regioni orientali del subcontinente, l’influenza britannica si estese rapidamente verso ovest. Il punto di svolta arrivò nel 1757 con la battaglia di Plassey, dove la Compagnia sconfisse il Nawab del Bengala e consolidò il proprio controllo su vaste aree della regione. Solo sette anni dopo, la vittoria nella battaglia di Buxar contro l’imperatore Mughal Shah Alam II rafforzò ulteriormente la presenza britannica in India, spianando la strada al dominio totale.
Durante il XIX secolo, l’espansione proseguì in modo aggressivo grazie alla Politica di Paramountcy, che permetteva alla Compagnia di annettere qualsiasi territorio ritenuto strategico per i propri interessi. Gli inglesi affrontarono e sconfissero i Maratha all’inizio del secolo, inglobando ampie porzioni di territorio. Successivamente, rivolsero la loro attenzione ai governanti Sikh, con cui ingaggiarono due guerre tra il 1845 e il 1849, che si conclusero con l’annessione del Punjab. Parallelamente, la Compagnia continuò la sua avanzata su altri fronti. Anche se le date di alcune annessioni rimangono discusse, è noto che Satara venne annessa nel 1848, Sambalpur nel 1850, Udaipur nel 1852, Jhansi nel 1853 e infine Nagpur nel 1854. In meno di un secolo, la Compagnia delle Indie Orientali passò dall’essere un semplice attore commerciale a dominare politicamente e militarmente gran parte del subcontinente indiano.
I malumori prima dell’ammutinamento
A partire dal 1765, solo i britannici potevano essere nominati ufficiali: la maggioranza della truppe era composta da soldati indiani, chiamati prima peons e successivamente sepoy – una corruzione del termine persiano sipahi (letteralmente: soldato). I sepoy, dunque, erano più numerosi dei soldati europei. Nel XIX secolo, il rapporto tra soldati indiani e britannici era di 7:1. Molti indiani si arruolarono in cerca di uno stipendio più alto e per avere l’opportunità di migliorare la loro condizione all’interno della società indiana tradizionale. D’altro canto, l’EIC si prese il rischio di dipendere da un numero così alto di soldati indiani a causa dell’estrema difficoltà nel reclutare soldati esperti tra le file dell’esercito regolare britannico. Al momento dell’ammutinamento l’esercito dell’EIC era composto da circa 45.000 soldati britannici e da 230.000 indiani.
Le prime avvisaglie di malcontento si erano già manifestate nel 1806 con alcune rivolte locali, tutte però represse duramente. Una delle principali fonti di frustrazione era la disparità salariale: i sepoy ricevevano la metà della paga dei soldati britannici e, cosa ancora più esasperante, il loro stipendio era rimasto invariato per oltre 50 anni. Con l’inflazione, ciò significava che il loro potere d’acquisto era crollato della metà rispetto ai primi dell’Ottocento.
Ma non era solo una questione di soldi. I soldati indiani erano anche riluttanti a servire all’estero. Nella cultura indù, attraversare i mari comportava complesse e costose cerimonie di purificazione per non perdere la propria casta. Inoltre, il razzismo istituzionale era evidente: ai sepoy era preclusa ogni possibilità di avanzamento di carriera: nessuno di loro poteva aspirare a diventare ufficiale.
Il punto di rottura arrivò con l’introduzione delle nuove cartucce per i fucili Enfield. Per caricare l’arma, i soldati dovevano mordere le cartucce per aprirle e, secondo le voci che circolavano nei campi militari, queste erano state unte con grasso di mucca e di maiale. Per gli indù, la mucca è sacra e per i musulmani il maiale è impuro: la sola idea di mettere in bocca quei materiali era offensiva e inaccettabile. Anche se in realtà il grasso non proveniva da nessuno di questi animali, il sospetto era già diventato convinzione.
A peggiorare le cose, si diffusero altre voci inquietanti: si diceva che la farina distribuita ai soldati fosse mescolata con ossa macinate di animali proibiti e che il sale avesse tracce di sangue suino o bovino, anche se in realtà il colore rossastro era dovuto ai sacchi usati per il trasporto. Questo clima di sospetti, unito alla separazione rigida tra ufficiali britannici e truppe indiane, creò un ambiente esplosivo. La mancanza di comunicazione e la crescente sfiducia trasformarono le caserme in vere e proprie polveriere pronte ad esplodere.
Oltre al malcontento dei sepoy, il clima politico e sociale in India era già carico di tensioni per una serie di dinamiche che andavano ben oltre i ranghi militari. Con la caduta definitiva dell’Impero Moghul, che da tempo mostrava segni di declino, molte istituzioni statali tradizionali scomparvero, lasciando spazio alla crescente influenza della Compagnia delle Indie Orientali. Alcuni stati principeschi si adattarono a questa nuova realtà, trovando persino dei vantaggi nell’allearsi con l’EIC. In alcuni casi, i sovrani locali arruolarono soldati della Compagnia per sbarazzarsi di rivali scomodi o reprimere rivolte interne. Tuttavia, non tutti ebbero questa fortuna: molti furono costretti a pagare una “tassa di protezione” all’EIC, una sorta di estorsione legalizzata che svuotava le casse degli Stati più deboli.
Ma il vero attrito esplose con le ambiziose politiche espansionistiche della Compagnia. Dopo il 1848, con l’arrivo del marchese di Dalhousie come governatore, prese piede la famigerata Dottrina dell’estinzione. Questa politica consentiva all’EIC di annettere territori i cui principi non avevano eredi naturali, rifiutando di riconoscere i figli adottivi come successori legittimi. Anche un’accusa di malgoverno bastava per spodestare un sovrano. Non sorprende quindi che molti Stati principeschi videro nella ribellione dei sepoy un’occasione per ribellarsi all’ingerenza britannica, mentre altri, più prudenti o fedeli, rimasero neutrali.
Nel frattempo, la gente comune soffriva in silenzio sotto il peso delle politiche economiche oppressive. Il Bengal Permanent Settlement del 1793 aveva istituito un sistema fiscale che garantiva entrate stabili all’EIC, ma che metteva in ginocchio i contadini indiani, costretti a pagare tasse elevate anche in tempi di carestia o crisi. L’insoddisfazione cresceva anche tra gli artigiani locali, che vedevano le loro attività distrutte dalla concorrenza dei beni importati dall’Inghilterra; a pagarne le spese più di tutti fu l’industria tessile. Anche il commercio di indaco e oppio, due delle materie prime più redditizie dell’epoca, finì sotto il controllo monopolistico della Compagnia, tagliando fuori i produttori locali.
A tutto questo si aggiunse il processo di “occidentalizzazione” attuato da Lord William Bentinck durante il suo mandato come governatore dell’EIC dal 1828: introdusse una serie di riforme sociali che avrebbero lasciato un’impronta profonda sulla società indiana. La più celebre – e anche la più controversa – fu senza dubbio l’abolizione del sati (o suttee) nel 1829. Questa pratica prevedeva che la vedova indù si immolasse volontariamente, o in molti casi forzatamente, sulla pira funeraria del marito. Sebbene l’abolizione fosse vista come un passo avanti per i diritti umani da parte degli europei e di alcuni riformatori indiani, non mancavano coloro che la consideravano un’ingerenza occidentale nelle tradizioni locali. La paura serpeggiava: se avevano eliminato il sati, quali altre usanze sacre sarebbero finite sotto attacco?
L’EIC avviò un’opera di educazione volta a trasformare le giovani generazioni indiane in perfetti impiegati coloniali. Gli indiani venivano istruiti secondo i canoni britannici, con l’obiettivo di riempire i ranghi più bassi dell’amministrazione coloniale. Questo approccio trovò un sostenitore convinto in Thomas Babington Macaulay, membro influente del consiglio dell’EIC, che non si fece problemi a dichiarare apertamente la sua disistima per la cultura indiana. Nella sua celebre Minute on Indian Education del 1835, Macaulay sostenne che:
Un singolo scaffale di una buona biblioteca europea vale più di tutta la letteratura e la filosofia indiana e araba messe insieme.
Come se non bastasse, nel 1833 l’EIC aprì le porte dell’India ai missionari cristiani, alimentando ulteriormente le tensioni culturali e religiose. Il malcontento cresceva, e a peggiorare le cose c’era il razzismo istituzionale che permeava l’intero sistema coloniale. Gli indiani, sebbene educati e integrati nei meccanismi amministrativi britannici, venivano sistematicamente esclusi dalle posizioni di potere e trattati come cittadini di seconda classe.
Questo miscuglio esplosivo di ingiustizie economiche, sociali e politiche fece sì che il malcontento non rimase confinato ai sepoy, ma si estese a vaste fasce della popolazione. Il risultato? Una ribellione che infiammò il subcontinente indiano e che lasciò un’impronta indelebile nella storia del colonialismo britannico.
Mangal Pandey e l’inizio della rivolta
La miccia si accese il 29 marzo 1857 a Barrackpore, quando Mangal Pandey, un sepoy sotto l’effetto del bhang (una sorta di cannabis locale), attaccò un ufficiale britannico. Pandey fu catturato e impiccato. Nello stesso mese a Meerut 85 sepoy si rifiutarono di usare le famigerate cartucce e vennero condannati a 10 anni di prigione. Il giorno dopo, i loro compagni si ribellarono, liberarono i prigionieri e marciarono verso Delhi, dove uccisero donne, bambini e uomini europei, ma anche indiani convertiti al cristianesimo.
E qui arriva il colpo di scena: i ribelli proclamarono l’ultimo imperatore Mughal, Bahadur Shah II, leader della rivolta. Era più un gesto simbolico che altro, ma bastò a dare un volto indipendentista alla ribellione. Da Delhi, la rivolta si diffuse come un incendio. Cawnpore (oggi Kanpur), Lucknow, Jhansi e Gwalior divennero epicentri della resistenza. Ma non pensate a una rivolta coordinata con una strategia chiara. Era più un mosaico di insurrezioni locali, ognuna con le sue motivazioni. Alcuni combattevano per la religione, altri per riconquistare i territori persi, altri ancora per pura rabbia verso l’oppressore.
Alcuni episodi furono particolarmente sanguinosi. A Cawnpore i ribelli promisero un passaggio sicuro ai britannici assediati. Ma appena questi uscirono dall’accampamento, furono massacrati. Anche le donne e i bambini catturati furono uccisi, e i loro corpi gettati in un pozzo. Da lì nacque il grido di battaglia britannico: “Ricordatevi di Cawnpore!“
La causa dei sepoy trovò sostenitori anche tra alcuni principi indiani che mal digerivano il trattamento riservato loro dall’EIC. Tra le figure più emblematiche della rivolta ci furono la regina Rani Lakshmi Bai di Jhansi e Nana Saheb, che rivendicava il titolo di peshwa, equivalente al primo ministro nell’Impero Maratha. Entrambi imbracciarono le armi contro la Compagnia, incarnando il malcontento diffuso tra le élite indiane. Non tutti i principi, però, si schierarono contro gli inglesi. Alcuni, come i maharaja di Gwalior e Jodhpur, rimasero fedeli agli inglesi, sebbene parte delle loro truppe si unì agli insorti. La rivolta, infatti, creò profonde spaccature anche all’interno degli Stati principeschi.
Il caos scatenato dalla ribellione – con episodi di violenza, saccheggi e richieste estorsive da parte degli insorti – spinse molti tra gli indiani più ricchi e influenti a schierarsi dalla parte degli inglesi, preferendo l’ordine coloniale al rischio di vedere i propri affari distrutti e le città travolte dall’anarchia. Altri ancora optarono per un approccio più prudente, mantenendosi neutrali finché le sorti del conflitto non divennero più chiare.
La reazione britannica
Gli inglesi non rimasero a guardare. Arrivarono rinforzi dall’Europa (circa 40.000 soldati) e scatenarono una controffensiva brutale. Le città riconquistate furono spesso teatro di massacri indiscriminati. Le ribellioni terminarono definitivamente nel 1858, schiacciate sotto il peso della superiorità militare e logistica inglese e dalla disorganizzazione interna ai ranghi ribelli. Sebbene il malcontento fosse diffuso e il desiderio comune fosse quello di cacciare i britannici dall’India, mancava un fronte unito e una leadership chiara.
Le rappresaglie furono spietate. A Delhi migliaia di civili furono massacrati insieme ai ribelli. Bahadur Shah II fu catturato e mandato in esilio in Birmania, mentre i suoi figli furono giustiziati. I sepoy catturati vennero legati davanti ai cannoni e fatti saltare in aria, un metodo tanto crudele quanto simbolico. E nel giugno del 1858, Lord Canning, governatore generale dell’EIC, dichiarò ufficialmente ristabilita la pace.
Per cercare di placare ulteriori rivolte, la regina emanò un proclama in cui prometteva amnistia ai ribelli (con alcune eccezioni), il rispetto dei diritti dei principi indiani e una politica di tolleranza religiosa. Ma queste promesse furono spesso disattese, lasciando dietro di sé rancori e tensioni che avrebbero continuato a ribollire sotto la superficie della società indiana. Il concetto di un’India libera iniziò a germogliare nella mente della gente.
L’eredità della rivolta
Le perdite furono pesanti da entrambe le parti, ma gli indiani ne ebbero di gran lunga di più:
Vennero uccisi 2.600 soldati e 157 ufficiali britannici. Altri 8.000 morirono per malattie e insolazioni, mentre i feriti gravi furono 3.000. Le perdite indiane, tra la guerra e la conseguente carestia, ammontano quasi a 800.000 persone.
R. H. Barrow
La Gran Bretagna decise che era arrivato il momento di prendere in mano la situazione e, il 2 agosto 1858, revocò ufficialmente il potere alla Compagnia delle Indie Orientali, ponendo direttamente l’India sotto il controllo della Corona britannica: addio Compagnia, benvenuto British Raj. Era chiaro al Parlamento britannico che l’EIC non aveva né l’autorità legale né le competenze diplomatiche per dichiarare guerre in nome del popolo britannico. Era pur sempre una società privata che rispondeva unicamente agli interessi dei propri azionisti, orientata al profitto piuttosto che alla giustizia o al benessere dei territori amministrati.
Pertanto, il primo passo fu lo smantellamento della macchina militare dell’EIC: la sua marina fu sciolta e, nel 1862, anche i nove reggimenti europei finirono sotto il controllo diretto di Londra. Ma agli occhi degli indiani la situazione non cambiò poi molto. Nel 1877, per sottolineare il potere e la grandiosità dell’Impero, la regina Vittoria fu proclamata Imperatrice d’India. E così, per i successivi settant’anni, la Gran Bretagna continuò a estrarre risorse, ricchezze e lavoro dal subcontinente, mantenendo un pugno di ferro sulle sue colonie. Ma ormai il seme della ribellione era stato piantato e, ispirandosi proprio alla rivolta dei sepoy, un secolo dopo l’India avrebbe finalmente raggiunto l’indipendenza, nel 1947.