La Groenlandia, quel vasto pezzo di terra ghiacciato incastonato tra l’Atlantico e l’Artico, è spesso immaginata come un luogo remoto, freddo e poco abitato. Eppure, dietro quegli scenari glaciali e quella natura selvaggia, c’è un popolo che sogna in grande. E sogna attraverso il calcio.
Søren Kreutzmann è uno di quei sognatori. Da dieci anni fa il parrucchiere a Nuuk, la capitale, ma la sua vera passione si manifesta quando calza gli scarpini e scende in campo. Søren non è solo uno dei migliori calciatori dell’isola, ma anche un simbolo di un movimento che cerca spazio e riconoscimento. Dribblatore veloce, ala sinistra invertita, destro naturale, ama paragonarsi a Luis Díaz del Liverpool. E mentre lavora nel suo salone, tagliando i capelli ai bambini che sognano un taglio “alla Ronaldo” o “alla Mbappé”, immagina se stesso indossare la maglia della Groenlandia contro le squadre di Concacaf.
Il problema? La Groenlandia non è affiliata alla FIFA né a nessuna confederazione calcistica. I suoi calciatori non possono partecipare alle qualificazioni mondiali né giocare partite ufficiali contro squadre UEFA. È come se il calcio groenlandese vivesse in una sorta di limbo, isolato dal resto del mondo, proprio come l’isola su cui si gioca. Ma la speranza è dura a morire. La Federazione calcistica della Groenlandia (KAK) ha lanciato una sfida ambiziosa: entrare nella Concacaf, la confederazione che riunisce le squadre di Nord America, America Centrale e Caraibi. Per i giocatori groenlandesi, sarebbe una porta spalancata verso il calcio internazionale.
Kenneth Kleist, presidente della KAK, sta portando avanti questa battaglia diplomatica. Dopo mesi di tentativi e di telefonate senza risposta, finalmente la Concacaf ha aperto un canale di comunicazione. Inizialmente l’incontro doveva tenersi a Miami, ma, complici le tensioni geopolitiche tra Stati Uniti e Groenlandia, è stato spostato a Londra. Una mossa che molti hanno visto come un tentativo di allontanare il dibattito sportivo dalle questioni politiche più delicate, che hanno creato non poche tensione. Infatti, dopo la maramalda proposta di Donald Trump di acquistare il territorio dalla Danimarca il primo ministro Múte Egede ha risposto duramente: “Siamo groenlandesi. Non vogliamo essere americani né danesi. Il futuro della Groenlandia lo decidiamo noi“.
Parole che trovano conferma in un recente sondaggio che ha rivelato come l’85% dei groenlandesi è contrario all’idea di diventare parte degli Stati Uniti. Ma sul piano sportivo emerge un desiderio diffuso di affermare una nuova identità internazionale, con il calcio in prima linea come veicolo di riconoscimento e orgoglio nazionale.
Ma la strada è in salita. Le difficoltà logistiche sono enormi. La Groenlandia è un territorio estremo: lunghi inverni che durano da ottobre a maggio, temperature glaciali e l’assenza di strade tra le città principali rendono complicato organizzare una normale stagione calcistica. Gli spostamenti avvengono via nave o aereo, e la stagione calcistica dura appena due o tre mesi all’anno a causa delle temperature estreme. Nonostante questo, circa il 10% della popolazione gioca a calcio.
Non abbiamo le infrastrutture necessarie. Ma se riusciremo ad entrare nella Concacaf, potremo accedere a fondi e risorse per costruire campi coperti e migliorare le condizioni di gioco.
Kenneth Kleist, presidente della KAK
Essere accettati nella Concacaf non significherebbe però poter partecipare subito alle qualificazioni mondiali. I regolamenti della FIFA sono chiari: solo le federazioni affiliate possono lottare per un posto ai Mondiali. Tuttavia, la Groenlandia potrebbe partecipare ad altre competizioni regionali e ad amichevoli ufficiali, un enorme passo avanti rispetto all’isolamento calcistico attuale.
La passione per il calcio in Groenlandia non è certo un fenomeno recente, ma solo ora sembra poter sbocciare a livello internazionale. Thomas Høegh, punto fermo della nazionale, incarna perfettamente questa storia. Nato in Danimarca da madre groenlandese, Høegh ha scoperto le sue radici attraverso il calcio. “Indossare la maglia della Groenlandia è il mio modo di onorare mia madre“, racconta con emozione. Insegna grammatica ed educazione fisica a Copenaghen, ma appena può si allena con la nazionale, volando avanti e indietro tra i due Paesi.
Anche Morten Rutkjær, il commissario tecnico della nazionale, crede fermamente nel progetto. Danese, con licenza UEFA, Rutkjær lavora a stretto contatto con i giocatori, consapevole delle loro difficoltà quotidiane. La maggior parte dei calciatori groenlandesi è dilettante: durante il giorno lavorano come parrucchieri, pescatori, insegnanti o bancari, e si allenano la sera, sotto le luci dei campi ghiacciati. Proprio per questo, la determinazione della Groenlandia ad ottenere l’affiliazione calcistica ha un significato che va oltre lo sport. È una questione di identità e di riconoscimento. Non vogliono essere “solo” un territorio freddo e remoto. Vogliono essere una nazione che ha qualcosa da dire anche nel calcio. Vogliono che i bambini di Nuuk o di Ilulissat crescano sognando di vestire la maglia verde della loro nazionale e scendere in campo contro Messico, Stati Uniti o Giamaica.
La sfida della Groenlandia alla Concacaf però non è solo sportiva, ma profondamente politica. L’adesione significherebbe non solo il riconoscimento del calcio groenlandese, ma un passo verso l’affermazione internazionale dell’isola. E in questo contesto, le dichiarazioni di Trump non sono viste solo come una bizzarra parentesi geopolitica, ma come un ulteriore tentativo di dominare e controllare un territorio che vuole invece autodeterminarsi. La Groenlandia non vuole essere venduta. Non vuole essere conquistata. Vuole essere riconosciuta. E il calcio, paradossalmente, potrebbe essere il campo di battaglia perfetto per questa lotta di identità e indipendenza.