Nostalgia del Bahrein

Alcuni ricordi non si possono cancellare. Restano lì, sospesi nella memoria come vecchie fotografie sbiadite, intatte nella loro semplicità. Per Ali Al Shehabi, artista del Bahrein, uno di questi ricordi è diventato arte. Una scena domestica, una vita quotidiana che si ripeteva ogni giorno, trasformata in un’opera che mescola memoria e nostalgia.

Ali Al Shehabi Bahrein

Su un divano modesto, un uomo sonnecchia con la papalina in testa e una canottiera bianca, i pantaloni scivolati leggermente sotto la vita. Si gratta distrattamente la schiena, immerso in un sonno tranquillo, come se il mondo esterno non esistesse. Questo uomo, però, non è il vero protagonista. È solo un modello. Una presenza scelta per rappresentare il padre di Al Shehabi, Jaafar, morto nel 2010. Un’ombra del passato portata nel presente attraverso la lente dell’arte.

Era così che lo trovavo ogni giorno“, ricorda l’artista. Ogni pomeriggio, tornando da scuola a Dubai, lui era lì, a dormire profondamente sul divano.” Un’immagine di assoluta normalità che, per il giovane Al Shehabi, rappresentava la sicurezza, la routine, la vita familiare nella sua forma più semplice e vera.

Per ricreare quella scena, Al Shehabi ha dovuto fare molto più che organizzare un set artistico. Ha dovuto navigare nei meandri del passato, riportare a galla ricordi intimi e personali, trasportandoli dal mondo della memoria a quello reale. Non stavo solo costruendo una scena” – spiegaStavo cercando di ricreare un frammento della mia vita che pensavo di aver perso“.

L’operazione è stata tanto precisa quanto emotiva. Ogni dettaglio doveva essere perfetto: il colore del tessuto del divano, le pieghe della canottiera bianca, la luce filtrata dalla finestra che illuminava la stanza in modo morbido e naturale. Tutto doveva essere esattamente com’era nei suoi ricordi, una ricostruzione meticolosa di un momento fugace.

Non potevo permettermi di sbagliare ” – aggiunge – “Se un solo dettaglio fosse stato fuori posto, la memoria sarebbe stata tradita“.

Per Al Shehabi, questo progetto, intitolato As I Lay Between Two Seas, non è stato solo un esercizio artistico, ma una forma di riconciliazione tra il suo passato e il presente. L’opera trae il titolo del suo progetto dall’etimologia: “Bahrain” in arabo significa “due mari”; si riferisce non solo al Paese, ma anche alle acque che separano il Bahrein, dove è nato nel 1994, e Dubai, dove si è trasferito con i genitori quando aveva sei mesi e dove ha vissuto per la maggior parte della sua vita. Prima che Al Shehabi tornasse in Bahrein, nel 2020, seguendo sua madre, le sue visite si erano limitate all’Eid e alle vacanze estive. Aveva associato quel luogo al dolore e all’instabilità politica: la morte di suo padre, delle zie, dei nonni e dello zio, tutti per cancro; la seconda battaglia di sua madre sempre contro questa malattia; i tumulti della Primavera araba nel 2011.

A mio avviso, sono tra due terreni in cui non posso restare piantato.

Scattate nel corso di tre anni, dal 2020 al 2023, le fotografie della serie sono nostalgiche e spesso umoristiche, evocando i comfort familiari della patria dell’artista in vari contesti (soggiorni, cucine, il mare) mentre pongono domande più ampie su come la mascolinità si esprime nel regno del Golfo.

In parte il progetto è dedicato alle sottoculture che permeano la vita quotidiana in Bahrein. Diverse immagini mostrano uomini vestiti da cowboy, una sottocultura che si è formata quando alcuni studenti del Bahrein, dopo aver frequentato college in Texas negli anni Sessanta e Settanta, tornarono affascinati dalla cultura del rodeo e dall’immaginario di Clint Eastwood, fondendo la tradizione americana con il radicato amore per i cavalli della loro terra. Un altro tema esplorato da Al Shehabi è la falconeria, antica pratica risalente alle tradizioni di caccia dei beduini nomadi della penisola arabica, oggi evoluta in uno sport d’élite. In una delle sue immagini, un falco riposa su una bilancia, pronto a essere pesato per determinare la sua categoria competitiva. Altre scene ritraggono un falco posato sull’avambraccio del suo proprietario, mentre nell’altra mano l’uomo stringe un piccione destinato a essere liberato in aria come preda.

Le immagini non si limitano alla preparazione: Al Shehabi cattura anche l’inevitabile epilogo. In uno scatto potente, il piccione giace senza vita, con il collo ferito e il sangue che macchia il candore immacolato della veste del falconiere. È una rappresentazione visiva cruda e poetica che riflette la tensione tra tradizione e modernità, tra caccia e sport, immortalando un mondo antico che sopravvive nella contemporaneità.

Il processo artistico è diventato quasi un rituale spirituale, un dialogo intimo tra quello che era e quello che è.

Non puoi riportare indietro il passato, ma puoi trovargli un posto nel presente.

Questa consapevolezza ha trasformato l’arte in qualcosa di molto più profondo. I ricordi, così sfuggenti eppure così potenti, diventano tangibili per un istante, immortalati in scene che sembrano reali ma che vivono solo attraverso l’arte. Il silenzio di un pomeriggio, il profumo di una stanza calda e la promessa che i legami familiari, anche se spezzati dal tempo, possono ancora essere ricuciti. È una testimonianza del potere della memoria, della resilienza dell’affetto e della capacità dell’arte di rendere eterno ciò che sembrava irrimediabilmente perduto.

Volevo che sembrasse vero” – riflette Al Shehabi“non per gli altri, ma per me.” E forse, in quell’istante cristallizzato, suo padre è davvero tornato. Anche solo per un attimo.

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