Era un giorno che molti avevano smesso di aspettare, un evento che sembrava impossibile: Bashar al-Assad, il presidente della Siria per oltre due decenni, è fuggito da Damasco su un aereo privato, lasciando un Paese devastato da anni di guerra e repressione brutale. La sua partenza ha segnato la fine di un regime che ha dominato la Siria per oltre mezzo secolo, un’epoca di terrore, controllo assoluto e soprusi che ha trasformato la vita dei siriani in una lunga prigionia. Ogni città, villaggio e strada portava il segno della famiglia Assad: ritratti di Bashar e di suo padre Hafez al-Assad, manifesti, statue e bandiere. La loro immagine era onnipresente come la paura. “I muri hanno orecchie“, dicevano i siriani, consapevoli che una parola sbagliata avrebbe potuto portare alla sparizione, alla prigione o alla morte.
Il regime era sostenuto da una rete intricata di servizi segreti, il Mukhabarat, con diversi rami che garantivano la soppressione di qualsiasi dissenso. In questo sistema totalitario, le voci critiche erano messe a tacere con torture, esecuzioni e sparizioni forzate. La Siria era un carcere a cielo aperto, un Paese in cui la vita era regolata dalla paura e dall’obbedienza cieca.
L’inizio della fine
Dopo anni di guerra civile e di stallo militare, il suo regime è crollato in undici giorni. L’offensiva decisiva è stata lanciata da Hayat Tahrir al-Sham (HTS), un gruppo ribelle islamista guidato da Abu Mohammad al-Julani, ex leader del ramo siriano di Al-Qaeda, Jabhat al-Nusra. Partendo dalla roccaforte di Idlib, HTS ha lanciato una campagna militare rapida e devastante, avanzando verso sud e catturando una città dopo l’altra. Le forze di Assad, logorate dalla guerra, dalla corruzione interna e dalle sanzioni internazionali, non hanno potuto opporre una vera resistenza. Damasco è caduta rapidamente, lasciando il regime nel caos. Assad ha lasciato la Siria senza rilasciare dichiarazioni né avvertimenti. Il suo primo ministro, Mohammad Ghazi al-Jalali, è rimasto nella capitale, dichiarando in un messaggio televisivo preregistrato che avrebbe facilitato una transizione pacifica:C
Crediamo in una Siria per tutti i siriani. Questo Paese merita di essere uno Stato normale, con buoni rapporti con i suoi vicini.
A Damasco, la caduta del regime ha scatenato scene di gioia e di caos. Migliaia di siriani sono scesi nelle strade, strappando manifesti di Assad, abbattendo statue e celebrando quella che molti consideravano una liberazione attesa da decenni. Le prigioni del regime, simboli della sua brutalità, sono state aperte con rabbia e disperazione. Migliaia di prigionieri politici sono stati liberati, storditi, affamati e increduli di fronte alla libertà inaspettata. In un video circolato sui social media, uomini armati hanno aperto le celle di una prigione vicino a Damasco, gridando: “Bashar al-Assad è caduto! Se n’è andato!“.
Maysaara, un rifugiato siriano in Germania intervistato dalla rivista The New Yorker, ha pianto di gioia alla notizia: “Ho pregato per vivere abbastanza a lungo per vedere questo giorno“, ha dichiarato con la voce rotta dall’emozione.
Ma non c’era solo gioia. Il timore di una vendetta settaria aleggiava sulle comunità alawite, da cui provengono gli Assad. Molti si sono chiesti se le truppe ribelli avrebbero rispettato le loro promesse di tolleranza e riconciliazione o se sarebbero seguite violenze contro le minoranze percepite come complici del regime.
Il vuoto di potere
Con Assad in fuga, la Siria si trova ora davanti a un futuro incerto. Abu Mohammad al-Julani si è presentato come un nuovo statista, dichiarando che il suo obiettivo è costruire istituzioni e creare una nuova Siria per tutti i siriani. Ma il suo passato come leader jihadista e terrorista designato dagli Stati Uniti pesa come un’ombra sulla sua credibilità. Un ex emiro di Jabhat al-Nusra ha detto che Julani “non è cambiato affatto“, ma ha imparato dagli errori di gruppi estremisti come l’ISIS, ipotizzando che Julani potrebbe sciogliere HTS per formare un nuovo ministero della difesa.
Ma il rischio che la Siria diventi una nuova Libia, dilaniata da milizie rivali, rimane alto. Le fazioni ribelli sono frammentate e il pericolo di una nuova guerra civile è reale.
Geopolitica e Conseguenze Globali
La caduta del regime di Assad ha scosso l’intero Medio Oriente. Russia e Iran, alleati cruciali del regime, sono stati colti di sorpresa. La Russia ha perso la sua unica base navale nel Mediterraneo, il porto strategico di Tartus, e la sua influenza nella regione è stata drasticamente ridotta. L’Iran, che ha utilizzato per anni la Siria come corridoio per rifornire Hezbollah e altre milizie sciite, è ora più vulnerabile che mai.
Il rischio di un conflitto più ampio è evidente. Israele ha immediatamente lanciato un’incursione militare vicino a Quneitra, nelle alture del Golan siriane. A Washington circolano due domande urgenti e correlate: i ribelli sfratteranno gli iraniani e i russi dal territorio siriano, come alcuni dei loro leader hanno minacciato? Oppure, per pragmatismo, cercheranno una sorta di compromesso con le due potenze che hanno contribuito a decimarli durante una lunga guerra civile?
E gli iraniani, indeboliti dalla perdita di Hamas e Hezbollah, e ora di Assad, decideranno che la loro migliore opzione sia quella di aprire una nuova trattativa con Trump o accelereranno il loro programma nucleare, considerato da alcuni leader iraniani come l’ultima linea di difesa in un’epoca di crescente vulnerabilità?
Il presidente Biden ha riconosciuto la complessità della situazione durante una dichiarazione rilasciata domenica pomeriggio dalla Roosevelt Room della Casa Bianca, affermando che il “momento di opportunità” che si presenta al mondo è “anche un momento di rischio e incertezza, mentre tutti ci chiediamo cosa verrà dopo“.
“Non fatevi illusioni, alcuni dei gruppi ribelli che hanno fatto cadere Assad hanno i loro tristi precedenti di terrorismo e violazioni dei diritti umani“, ha dichiarato Biden. Ha sottolineato che leader come Mohammad al-Jolani “stanno dicendo le cose giuste ora, ma mentre si assumono maggiori responsabilità, valuteremo non solo le loro parole, ma anche le loro azioni“.
Questa valutazione, tuttavia, ricadrà in gran parte sull’amministrazione del presidente eletto Trump, mettendo alla prova il significato dei suoi post sui canali social in cui afferma che la strategia migliore per gli Stati Uniti sarebbe quella di restarne fuori. Ma è improbabile che Trump possa permettersi questo lusso. Gli Stati Uniti mantengono una presenza militare di circa 900 uomini nella Siria orientale, impegnata nella caccia e nel contrasto alle forze dell’ISIS. Sebbene l’istinto di Trump già durante il suo primo mandato fosse stato di ritirarsi, i suoi consiglieri militari lo avevano convinto che un ritiro avrebbe paralizzato gli sforzi americani per contenere e sconfiggere le forze jihadiste. Domenica, mentre Assad fuggiva, gli Stati Uniti hanno preso di mira raduni di combattenti dell’ISIS in un’operazione antiterrorismo che i funzionari hanno dichiarato non avere alcuna relazione diretta con la caduta di Damasco.
Il destino della Siria è ora nelle mani di chi riuscirà a colmare il vuoto di potere lasciato dal regime di Assad. La storia è ancora da scrivere.