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Tokyo Drift: cosa succede se una città diventa un parco a tema?

Tokyo ha sempre avuto un’aura di avanguardia, un simbolo del futuro proiettato nella cultura globale. Ma oggi, con uno yen debole e un’ondata di turismo senza precedenti, la città sembra aver cambiato direzione. Se prima rappresentava un’utopia tecnologica, oggi il suo fascino è in gran parte legato ai prezzi accessibili per gli stranieri. La domanda che quindi sorge spontanea è: Tokyo sta davvero perdendo il suo status di città del futuro?

Se una volta la città era vista come un luogo esclusivo e quasi inaccessibile, ora chiunque con qualche migliaio di euro può permettersi di viverla intensamente. Ma questa accessibilità ha un prezzo. Il paragone con città come Venezia o Bali è inevitabile: quartieri un tempo tranquilli ora sono invasi da vacanzieri in cerca di esperienze “autentiche”, e alcune zone a luci rosse sono diventate attrazioni turistiche per chi è a caccia di storie piccanti. Non mancano poi gli episodi al limite del grottesco, con editoriali locali che raccontano di turisti sorpresi a strappare rami di ciliegio o a consumare così tanto riso da mettere in difficoltà le scorte nazionali. Si è diffuso perfino un termine per descrivere questo fenomeno: kanko kogai, ovvero “inquinamento turistico”.

Di buono c’è che il boom turistico ha dato una scossa al mercato immobiliare: sempre più investitori hanno comprato proprietà per trasformarle in hotel, e le severe restrizioni sugli affitti a breve termine, introdotte sei anni fa, hanno impedito che Tokyo finisse come Roma o Barcellona, dove Airbnb e speculatori immobiliari hanno fatto impennare i prezzi delle case. Ma, come in altre grandi città, il turismo di massa ha anche il suo lato negativo. Tokyo ha un ritmo preciso, una sorta di coreografia urbana che funziona alla perfezione – fino a quando non viene interrotta dai visitatori che non ne colgono le dinamiche. Chi vive lì lo sa: il campanello della bicicletta non si usa mai, meglio segnalare la propria presenza con un tocco leggero dei freni; le piccole aree verdi sugli incroci non sono panchine improvvisate, anche se possono sembrare perfette per una sosta. E poi c’è il rumore delle valigie a rotelle sui marciapiedi, che riesce a essere più fastidioso di un martello pneumatico. Chi conosce Tokyo sa che le zone più turistiche sono ormai invase. I templi di Asakusa brulicano di viaggiatori, mentre a Ueno i negozi vendono gadget a tema più che prodotti locali. Oltre a tutto questo, il turista è anche il simbolo di un cambiamento più profondo e inquietante: la trasformazione di Tokyo in una città costruita per chi la visita, più che per chi ci vive. L’idea di omotenashi, l’ospitalità giapponese, è stata spinta al limite e riconvertita in un vero e proprio dovere nazionale. Il risultato? Il turista spesso si comporta come se fosse l’ospite d’onore di un grande resort, con un intero Paese pronto a servirlo.

Tokyo è una città giovane rispetto a molte altre capitali straniere, essendo diventata un centro di potere solo dopo la Restaurazione Meiji nel 1868; c’è poco del vecchio mondo. Gran parte della sua struttura è stata ricostruita più volte nel corso del XX secolo, tra terremoti, bombardamenti e boom edilizi. Questo l’ha resa dinamica, ma anche vulnerabile ai cambiamenti. Negli anni Ottanta rappresentava il vertice dell’innovazione tecnologica e della crescita economica. Oggi, invece, il Paese fatica a mantenere la sua competitività, mentre economie vicine, come la Cina e la Corea del Sud, avanzano rapidamente. La popolazione è in calo da oltre 15 anni, con previsioni che parlano di un dimezzamento entro il 2100. In questo scenario, ogni turista che atterra negli aeroporti di Haneda o Narita diventa prezioso, sia che stia comprando abiti firmati a Omotesandō, manga ad Akihabara o semplicemente uno spuntino al FamilyMart. Ma il rischio è che Tokyo smetta di essere un simbolo del futuro e diventi un gigantesco museo a cielo aperto, dove i turisti vengono per rivivere un passato idealizzato.

I turisti vengono a Tokyo cercando l’immagine della città futuristica che hanno visto nei film o negli anime degli anni Novanta e Duemila. Vogliono le luci al neon di Shinjuku, le ragazze vestite in modo eccentrico ad Harajuku e i vicoli nascosti pieni di bar tradizionali. Ma la realtà è che questa Tokyo sta lentamente scomparendo. Le piccole attività a gestione familiare vengono sostituite da catene internazionali, i quartieri storici vengono ristrutturati per far posto a nuovi hotel e centri commerciali. L’identità della città si sta trasformando, e non è chiaro se il futuro porterà una Tokyo ancora più innovativa o una versione standardizzata, modellata sulle esigenze del turismo di massa.

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Eppure, pochi si accorgono di chi sta dietro le quinte di questo grande spettacolo turistico. La manodopera straniera è diventata essenziale per far funzionare la città: studenti vietnamiti e cinesi servono ai tavoli dei ristoranti, mentre molti altri lavorano nei supermercati o nelle fabbriche di alimentari. Per la maggior parte di loro, il sogno giapponese è molto diverso dalla realtà: turni massacranti, stipendi bassi e condizioni di lavoro al limite dello sfruttamento. Alcuni arrivano con visti per studenti e finiscono a lavorare molto più delle 28 ore settimanali consentite, altri vengono reclutati con programmi di formazione tecnica che spesso si rivelano una copertura per ottenere manodopera a basso costo. Non sorprende che nel 2023 oltre 9.000 lavoratori siano scomparsi dai registri ufficiali, probabilmente per sfuggire a condizioni di vita insostenibili.

Il Partito Liberal-Democratico, che governa il Giappone da decenni, vede l’immigrazione come l’unica soluzione alla crisi demografica del Paese, caratterizzata da un calo delle nascite e un rapido invecchiamento della popolazione (shoshi koreika). L’automazione potrebbe essere una possibile alternativa, ma il Giappone è ancora indietro su questo fronte: nel settore pubblico si usano ancora floppy disk e fax, e il concetto di impiego a vita è ancora diffuso. Fino a quando la tecnologia non sarà abbastanza avanzata da sostituire la manodopera umana, o finché Paesi emergenti come Vietnam e Nepal non supereranno il Giappone in termini di opportunità economiche, la strategia sarà quella di importare lavoratori stranieri. Senza di loro, persino i supermercati e i convenience store come 7-Eleven faticherebbero a rimanere operativi, con il rischio che persino un semplice wrap diventi difficile da trovare.

Con sempre più cittadini giapponesi che lasciano Tokyo per trasferirsi altrove, la città può essere rimodellata a misura di investitori, con quartieri ripensati per accogliere una popolazione più temporanea e meno incline a rivendicare diritti. In questo scenario, chi governa può permettersi di gestire la città come un grande business, spremendo il massimo da chiunque sia disposto a viverci senza troppe pretese. Ma il piano non sta funzionando come previsto. Attirare manodopera straniera è sempre più difficile: mentre il Giappone si impoverisce, i Paesi vicini crescono e offrono condizioni migliori. Per riportare il turismo ai livelli pre-pandemia, servirebbe mantenere lo yen basso, ma questo penalizzerebbe l’intera economia, senza contare i rischi geopolitici e ambientali che rendono il futuro ancora più incerto.

Tokyo si prepara a un cambiamento drastico, ma la direzione non è chiara. Per far spazio al turismo e agli investimenti, si parla di trasformare i quartieri a luci rosse in zone commerciali duty-free, demolire vecchie strutture per far posto a nuovi hotel e riorganizzare intere aree in funzione del profitto. Ma a quale prezzo? Se questa visione prenderà piede, della Tokyo autentica potrebbe non rimanere molto, né fisicamente né culturalmente. Chi resterà a vivere in questa città dovrà fare i conti con un nuovo volto della città, costruito per piacere agli investitori più che ai suoi abitanti. Saranno i discendenti degli immigrati, gli espatriati di lungo corso, i giapponesi rimpatriati dalla periferia a decidere cosa fare di una città ormai pensata più per il business che per le persone. In un Paese che invecchia e si impoverisce, il vero problema sarà trovare una nuova fonte di speranza, prima che Tokyo smetta di essere una città per diventare un prodotto da vendere al miglior offerente.

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