linguaggio

Quanto influisce il nostro linguaggio sul nostro pensiero?

Nel 2010, in un piccolo villaggio dello stato dell’Uttar Pradesh, in India, stava per apparire una nuova dea. Ma non era come quelle della mitologia indù. Niente sari colorati come Durga o gioielli sfarzosi come Lakshmi. Questa divinità portava un cappello a tesa larga e un abito simile a quello della Statua della Libertà. Non cavalcava un leone o un cigno, ma si ergeva fieramente sopra un computer desktop. Niente spada o lancia, nelle sue mani c’erano una penna e la Costituzione indiana, simbolo di uguaglianza e diritti. Il suo nome? Angrezi Devi, la Dea Inglese. Il suo compito? Portare emancipazione e opportunità ai Dalit (o Paria), la comunità più emarginata dell’India, gli “intoccabili”.

L’idea venne a Chandra Bhan Prasad, scrittore e attivista Dalit, che vedeva l’inglese come la chiave per liberare il suo popolo da secoli di oppressione. “Un Dalit che parla inglese sarà mai costretto a pulire le strade o lavorare nei campi dei proprietari terrieri?“, si chiedeva Prasad. Per lui, imparare l’inglese era una rivoluzione, un biglietto per un futuro più equo. Dichiarò:

L’inglese è diventato il più grande movimento di massa che il mondo abbia mai visto.

E in effetti, aveva ragione. Oggi, circa 1,5 miliardi di persone parlano inglese, rendendolo la lingua più diffusa della storia umana. È la lingua dell’ONU, della NATO, dell’OMC e dell’UE. Rosemary Salomone, nel suo libro The Rise of English: Global Politics and the Power of Language, la definisce la “lingua franca del mondo“. Come altre lingue coloniali, l’inglese si è diffuso inizialmente attraverso conquista, conversione e commercio, processi ben noti. Tuttavia, la sua espansione oggi è sostenuta da un quarto fattore, che Salomone definisce “collusione”. In tutto il mondo, le persone ricercano l’inglese e le opportunità che esso offre.Le madri coreane mandano i loro figli nei paesi anglofoni per apprendere la lingua” – osserva – “Le università olandesi adottano l’inglese come lingua d’insegnamento, i paesi ASEAN collaborano in inglese, e gli attivisti politici twittano in inglese“.

Ma la sua diffusione ancora oggi continua a creare critiche e resistenze.

La Francia, ad esempio, combatte da decenni il predominio dell’inglese. Già nel 1971, il presidente Georges Pompidou avvertiva che se l’inglese fosse diventato la lingua principale dell’Europa, il continente avrebbe perso la sua identità. Decenni dopo, Emmanuel Macron ha dichiarato che “l’inglese è troppo dominante a Bruxelles“, promettendo di rafforzare il francese tra i funzionari europei. Le speculazioni sul tema sono diffuse. Prasad, ad esempio, pensa che ci sia una sorta di egualitarismo insito nell’inglese e assente nelle sue alternative indiane:

L’hindi è pieno di pregiudizi di casta. Modi di dire, barzellette e proverbi denigrano i Dalit. Come può un Dalit sentirsi orgoglioso di una lingua che lo disprezza?

Dall’altra parte, autori come Ngũgĩ wa Thiong’o sostengono che l’inglese sia solo un altro strumento di dominio culturale, un veicolo per la supremazia anglosassone. Mentre il sociologo francese Pierre Bourdieu si interrogava nel secolo scorso se fosse possibile imparare l’inglese senza esserne mentalmente “colonizzati”.

Ma la paura dell’inglese non è solo una questione di nazionalismo linguistico. In parte, questa apprensione nasce dal timore dell’erosione delle identità culturali. Ma soprattutto, secondo diversi ricercatori, esiste un altro motivo per preoccuparsi della diffusione dell’inglese: la prospettiva di un’egemonia cognitiva. Le lingue, sostengono, influenzano il modo in cui percepiamo e rispondiamo al mondo. Le idiosincrasie dell’inglese, la sua grammatica, i suoi concetti, la sua connessione con la cultura occidentale, possono produrre congiuntamente una costruzione arbitraria della realtà. La lingua che parliamo, dunque, modellerebbe il nostro modo di pensare.

Benjamin Lee Whorf, noto per la sua teoria sul legame tra linguaggio e pensiero, sosteneva che il modo in cui una lingua struttura il mondo influisce sulla percezione della realtà. Anche se le sue idee sono state in parte ridimensionate, studi recenti mostrano che il linguaggio ha un impatto sul nostro modo di classificare il tempo, lo spazio e persino le emozioni. Per esempio, i russi distinguono tra due tipi di blu – “goluboy” (chiaro) e “siniy” (scuro) – e riescono a percepire meglio le sfumature tra queste tonalità rispetto agli anglofoni. I parlanti di Aymara, in Sud America, visualizzano il tempo al contrario rispetto agli europei: per loro il passato è davanti, visibile, mentre il futuro è alle spalle, sconosciuto. In Nuova Guinea, gli Yupno mappano il tempo in base alla geografia: il passato scorre verso il basso, il futuro sale verso l’alto. Insomma, il modo in cui parliamo influenza davvero il modo in cui pensiamo.

Ma cosa c’entra tutto questo con la Dea Inglese?

La sua inaugurazione era prevista per il 25 ottobre 2010, all’interno di un tempio di granito nero decorato con formule scientifiche e i nomi di grandi scrittori inglesi. Ma quel giorno non arrivò mai. Il governo locale bloccò la costruzione, forse su ordine di Kumari Mayawati, leader Dalit che non voleva “altre dee” a contendersi lo spazio simbolico della sua comunità. Prasad sperava che, con il tempo, il progetto riprendesse. Ma quando nel 2017 l’Uttar Pradesh elesse come primo ministro Yogi Adityanath, un monaco nazionalista indù, la prospettiva di un tempio dedicato all’inglese svanì del tutto. Nel frattempo, l’inglese continua a essere un tema centrale nel dibattito politico e culturale indiano. Per il Bharatiya Janata Party (BJP), il partito di Narendra Modi, l’inglese è il simbolo dell’élite distante dal popolo, mentre l’hindi è la “vera lingua dell’India“. Ma la lingua è molto meno unitaria di quanto spesso supponiamo. La versione dell’inglese che il BJP cerca di indebolire differisce notevolmente da quella imposta per la prima volta dagli inglesi circa due secoli fa. È una lingua innamorata del tempo progressivo, la cui pronuncia è trasfigurata da consonanti retroflesse e da occlusive sorde non aspirate. Onorifici come “ji”, “sir” e “sahib” vengono usati per accogliere le sfumature locali di deferenza. Dopo secoli trascorsi a fermentare nel subcontinente, l’inglese è diventato indiano.

Lo stesso vale per altre regioni del mondo: a Singapore è nato il Singlish, in Africa l’inglese pidgin, in Giamaica il patois. Nonostante le sue radici coloniali, l’inglese è stato reinventato dai popoli che lo parlano, trasformandolo in una lingua propria. Bourdieu aveva ragione quando affermava che i modelli linguistici ci influenzano. Eppure, stando alle migliori ricerche etnografiche e di scienze sociali, la sua paura del lavaggio del cervello era esagerata. Se i modi di parlare possono alterare i modi di pensare, i modi di pensare possono alterare anche i modi di parlare.

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