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Cultura e leadership nello sport: la lezione di Steve Kerr

Nel 2020, due ricercatori della Harvard Business School hanno prodotto un caso studio su Steve Kerr e i valori guida dei Golden State Warriors, con l’obiettivo di aiutare i leader aziendali a sviluppare una cultura vincente. L’obiettivo era dimostrare come la cultura non è solo uno slogan, ma un insieme di valori da vivere quotidianamente.

Lo studio ha messo in luce un aneddoto significativo, risalente ai primi mesi di Kerr come allenatore dei Warriors, nel 2014. Determinato a prepararsi al meglio per il nuovo ruolo, si recò a Seattle per osservare da vicino Pete Carroll, head coach dei Seahawks, trascorrendo tre giorni al suo fianco. Durante la visita, Carroll gli chiese come avrebbe allenato la sua squadra. Kerr rispose parlando di tattiche offensive, ma Carroll lo fermò: “No, non è quello che conta. La chiave è che tipo di cultura crei e cosa provano i ragazzi ogni giorno quando si presentano in campo“.

Mi ha raccontato che gli ci sono voluti dieci anni per capire, da solo, che per avere successo un allenatore deve avere valori fondamentali che prendano vita ogni giorno e con cui i giocatori possano davvero connettersi. Perché se i giocatori non riescono a connettersi, quei valori restano solo parole su una pagina.

Steve Kerr

Nel panorama dello sport moderno, forse nessun termine è stato più venerato, radicato e allo stesso tempo abusato della parola “cultura”. Viene citata in ogni conferenza stampa, elogiata dopo grandi vittorie e ripetuta da allenatori, dirigenti e giornalisti. Eppure, uno degli aspetti più affascinanti del mondo aziendale, secondo l’esperto Spencer Harrison, è che molti leader non comprendono l’intuizione di Carroll.

Le ricerche di Harrison, professore di comportamento organizzativo all’INSEAD in Francia, esplorano come i leader possano favorire creatività, coordinamento e connessione all’interno delle organizzazioni. Quando non sta analizzando le band vincitrici di Grammy o interrogandosi su come le persone sopravvivano agli incidenti aerei, offre consulenze ai dirigenti d’azienda.

Quando parla con loro, tutti riconoscono l’importanza della cultura e il proprio ruolo nel costruirla. Ma alla domanda su come la realizzino concretamente, la maggior parte non sa rispondere. Il motivo, spiega Harrison, è che nessuno glielo ha mai insegnato:

Sanno per esperienza che c’è questa cosa indefinibile che ha un impatto sul comportamento delle persone, ma non hanno gli strumenti per darle forma.

Amy C. Edmondson, professoressa di leadership alla Harvard Business School, ritiene che ogni organizzazione efficace abbia tre pilastri fondamentali: una proposta di valore chiara che definisce il motivo per cui l’organizzazione esiste, un sistema per raggiungere tale scopo, come programmi di allenamento o strategie aziendali, e una cultura ben definita, che consente di realizzare la visione senza bisogno di continue istruzioni.

Quando Kerr arrivò a Golden State, identificò quattro valori fondamentali per la sua squadra: gioia, competizione, compassione e consapevolezza. Ma la vera sfida era far vivere questi valori ogni giorno. Come si fa a trasformare una frase motivazionale su un muro in un principio concreto?

Un esempio interessante è il caso di Jimmy Butler. I Miami Heat vantano una delle culture più dichiarate e riconoscibili della NBA, un vero e proprio marchio, la Heat Culture, nata con l’arrivo di Pat Riley. Prima come allenatore e poi come presidente della squadra, Riley ha trasformato gli Heat in una seria contendente al titolo, definendo i valori fondamentali della franchigia in modo chiaro: la squadra sarebbe stata “la più laboriosa, meglio allenata, più professionale, altruista, dura, cattiva e spietata della NBA“. Inizialmente, questa filosofia sembrava calzare alla perfezione per Jimmy Butler, una stella ultra-competitiva e intraprendente. Gli Heat gli concessero persino alcune libertà, come la possibilità di viaggiare e alloggiare separatamente durante le trasferte. Ma il rapporto tra la squadra e il giocatore si incrinò rapidamente, portando a ripetute sospensioni disciplinari, a una situazione di stallo imbarazzante e, infine, alla sua cessione ai Golden State Warriors.

Per Spencer Harrison, questo caso dimostra come la cultura di un’organizzazione si divida in due livelli: la cultura “Big C”, ovvero i valori dichiarati e tramandati dall’alto, e la cultura “Small C”, che emerge dalle interazioni quotidiane tra i membri del team. Kristie Rogers, professoressa alla Marquette University, ha scoperto che le aziende con una cultura “Small C” forte tendono a essere più innovative e creative. Mentre nelle organizzazioni con una cultura “Big C” troppo rigida, il rischio è quello di soffocare nuove idee e rimanere bloccati in un unico modo di fare le cose.

Lo stesso problema si è visto nel recente scambio di Luka Dončić dai Dallas Mavericks ai Los Angeles Lakers in cambio di Anthony Davis. Una mossa che ha scioccato l’intera NBA. Dončić aveva guidato i Mavericks alle finali NBA e rappresentava il futuro della squadra. Eppure, il GM dei Mavericks, Nico Harrison, ha spiegato lo scambio come una “questione di cultura”. “Ci sono persone che si adattano alla cultura e persone che contribuiscono a crearla. Sono due cose distinte“, ha dichiarato Harrison. Ma, come nota Harrison, se la cultura di una squadra non è ben definita, giustificare certe decisioni in nome della “cultura” rischia di sembrare solo una strategia di facciata.

Amy Edmondson definisce questo fenomeno il “problema dell’artista di alto livello“: una persona di talento che, però, ha un impatto negativo sul team. Un manager poco riflessivo terrà una mela marcia solo perché porta risultati nel breve termine. Ma a lungo andare, questo erode la motivazione e l’impegno del resto del gruppo. Allenatori come Gregg Popovich (San Antonio Spurs), Mike Tomlin (Pittsburgh Steelers) e Jürgen Klopp (ex Liverpool) sono riusciti a bilanciare valori forti con una cultura “Small C” dinamica. La loro leadership non si limita a insegnare concetti astratti, ma si traduce in momenti reali e concreti vissuti dal team ogni giorno.

Quando Kerr iniziò la sua prima stagione con i Warriors, scrisse i valori della squadra su una lavagna e creò il motto: La forza dei numeri. Organizzava incontri quotidiani e cercava di inserire un tocco di umorismo nelle sue lezioni. Una volta ricordò una conversazione con Gregg Popovich, che gli disse che, dopo anni di allenamento, aveva capito che una delle sue priorità principali era riuscire a godersi la giornata. Se era entusiasta di lavorare, anche la cultura della squadra ne traeva beneficio.

Ma gran parte della costruzione della cultura rimane intangibile. Perché alcuni allenatori riescono a connettersi con i loro giocatori e altri no? Perché alcuni leader appaiono autentici, mentre altri sembrano non veri?

Tutto ciò che accade in allenamento, tutto ciò che i giocatori percepiscono entrando in palestra o in campo, ogni singolo giorno in cui si presentano alla struttura deve essere reale” – ha raccontato Kerr a Carroll nel loro podcast, ricordando la loro prima conversazione nel 2014 – “I valori che contano per te come allenatore devono prendere vita. Ed è così che si definisce la cultura“.

E quando i tuoi giocatori lo sentono, quando percepiscono quell’autenticità che viene da te, e questo si riflette negli allenamenti e nell’atmosfera della squadra, allora la cultura diventa qualcosa di concreto e lo slancio inizia a crescere“.

C’è un’altra storia che Kerr ama raccontare, e riguarda il modo in cui struttura gli allenamenti. Indipendentemente da ciò che fanno i Warriors in un determinato giorno, Kerr cerca di trasformare ogni esercizio in una competizione. Ma c’è un altro motivo per cui questa storia è così potente: il semplice fatto che Kerr la racconti.

Dopo anni di ricerca, Harrison ritiene che uno dei modi migliori per creare una cultura sia attraverso la narrazione. Chiama questo processo “reverse Hansel e Gretel-ing”, ed è piuttosto semplice: quando un’azienda ha una storia da raccontare su se stessa, può usarla come una bussola per guidare il proprio percorso. Se ne trovano esempi in aziende storiche come Hewlett-Packard, nata in un garage e che ha usato la sua storia d’origine per mantenere vivo il suo spirito di innovazione e determinazione. Ma lo stesso principio si applica anche a squadre come i Warriors e gli Heat.

Le storie simboleggiano cosa significa andare avanti. E quando le ascoltiamo, tendiamo a interiorizzarle e a farle nostre.

Spencer Harrison

Con il tempo, ogni leader non dovrà nemmeno ripetere la storia. Kerr, ad esempio, richiama i suoi valori fondamentali solo in alcuni specifici momenti. La sua speranza è che, con il tempo, i giocatori non abbiano più bisogno di sentirli perché li vivranno naturalmente. E questo è il vero segreto: la cultura non è una dichiarazione d’intenti, ma un’esperienza vissuta ogni giorno.

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