storie d'amore tra israeliani e palestinesi
Foto: Justin Lane/EPA

L’amore al tempo del conflitto israelo-palestinese

Se si dovesse individuare una voce rappresentativa delle proteste palestinesi probabilmente la scelta ricadrebbe sul poeta Mahmoud Darwish. Nato nel villaggio di Al-Birwa sette anni prima che l’esercito israeliano lo invadesse e radesse al suolo, costringendolo a fuggire insieme alla sua famiglia in Libano — in quello che è noto come la Nakba, l’esodo forzato della popolazione araba palestinese durante la guerra arabo-israeliana del 1948 — Darwish è emerso nel corso del XX secolo come l’icona culturale palestinese per eccellenza. Quando 32enne entrò nell’Olp (sue furono le parole pronunciate da Arafat alle Nazioni Unite nel 1974 sul ramoscello di ulivo in una mano e la pistola nell’altro), gli venne proibito l’ingresso in Israele, finendo per passare così il resto della sua vita da esiliato. E nella “sorte tristissima” dell’esule, il poeta ha raccontato la lotta per l’indipendenza della sua gente, criticando sia l’occupazione israeliana che le leadership palestinesi.

Mahmoud Darwish
Mahmoud Darwish

Nell’agosto del 2014 la regista palestinese Ibtisam Mara’ana ha presentato il documentario Write down, I am an Arab, titolo che è una citazione di un verso della poesia più nota di Darwish, Bitaqat huwiya (Carta d’identità), che racconta la storia di un uomo arabo che mentre mostra il suo numero di identità alle guardie israeliane giura che prima o poi tornerà nella sua terra. La parte del documentario che ha suscitato più scalpore è quella in cui si sente il poeta dire:

Rita è il nome che ho scelto. La Rita che compare in tutte le mie poesie è una donna ebrea. Sto forse rivelando un segreto?

Il poeta nazionale della Palestina era innamorato di una ragazza ebrea. Non solo, la sua amata, che compare in poesie, come Il lungo inverno di Rita e Rita e il fucile, era anche un soldato dell’esercito che aveva distrutto il suo villaggio. Nel suo memoir del 1973 Darwish scrive:

Tra acqua e sabbia ha detto ‘Ti amo’
Tra desiderio e tormento le ho detto ‘Ti amo’
Quando l’ufficiale le ha chiesto cosa stesse facendo lì gli ha risposto: ‘Chi sei?’
‘Tu chi sei?’
‘Sono la sua ragazza, mascalzone, sono venuta a dirgli addio fino alla porta della prigione! Che volete da lui?’
‘Guarda che sono un ufficiale’
‘Anche io diventerò un ufficiale l’anno prossimo, mascalzone!’ e gli ha esibito il foglio di leva. 
Allora l’ufficiale l’ha salutata con un sorriso e mi ha strappato dalle sue braccia per sbattermi in cella. 

La reale identità di Rita è rimasta nascosta per tutta la vita del poeta, e solo nel 2014, 6 anni dopo la sua morte, è stata svelata nel documentario della Mara’ana. Si chiamava Tamara Ben Ami, israeliana di origini polacche, lavorava come ballerina a Haifa quando poco più che ventenne conobbe il poeta. Che Mahmoud Darwish, strenuo critico della deumanizzazione imposta dallo Stato d’Israele e della deterritorializzazione del popolo palestinese, fosse perdutamente innamorato di una soldatessa israeliana è qualcosa di notevole: la testimonianza diretta di come non ha mai senso generalizzare e, soprattutto, è il simbolo di una speranza, mai celata, che una pace stabile tra questi due popoli possa avvenire. Certo, è più difficile immaginarla ora, con gli attentati di Hamas e i bombardamenti indiscriminati di Israele a Gaza, specie in quei villaggi palestinesi, come Hebron e Nabi Saleh, incastrati tra gli insediamenti israeliani, in cui i contatti tra le due comunità sono minimi e spesso violenti. Qui la deumanizzazione dei due popoli ha sviluppato una pervasività dell’odio a tal punto che solo immaginare una relazione sentimentale tra palestinesi e israeliani è impossibile. Una pervicace intolleranza che emerge non solo negli adulti, ma anche, e in modo paradossalmente più evidente, nei bambini. Ne è un esempio il racconto della scrittrice britannica Taiye Selasi, la quale raccontando della sua esperienza in Israele e Palestina, ha scritto:

Quando nel nostro primo giorno a Gerusalemme Est, un autobus blindato che trasportava dei bambini ebrei si è fermato di fronte alle sbarre della cancellata che protegge l’edificio di una famiglia di coloni, a colpirmi di più — fino a spezzarmi il cuore — non sono state le armi che i poliziotti tenevano al petto mentre scortavano i bambini alla porta, quanto piuttosto le espressioni sul viso di quei bambini: indurite, tormentate. Erano piccoli israeliani a cui era stato insegnato a temere — e, per estensione logica, a odiare — i palestinesi.

Credere che in questi luoghi storie d’amore come quella di Darwish e Tamara Ben Ami siano impossibili è comprensibile, ma questa “paura dell’altro” si estesa anche in città come Tel Aviv, la più giovane e laica città israeliana, e Ramallah, dove si vedono più tacchi a spillo che hijab; ovvero in quei luoghi in cui c’è la più alta concentrazione di progressisti israeliani e palestinesi. Ramallah è il porto sicuro di europei e americani che lavorano nel mondo umanitario e diplomatico, nonché meta privilegiata dei nuovi ricchi palestinesi che lavorano nel mondo tech. Una bolla che ha il suo epicentro nello Snowbar, il più cool dei ritrovi serali di questa nuova élite. Allo Snowbar, come in tutti i locali che si alternano tra il quartiere al-Masyoun e Rukab street, questi giovani esercitano la propria libertà, il che vuol dire anche trasgressione. Qualunque pratica considerata tabù nella società palestinese — il consumo di droga e di alcolici, l’omosessualità e la sessualità femminile — mette radici in questi ritrovi. E qui, come racconta nel suo reportage la Selasi, non è raro trovare ragazze che si rilassano bevendo birra o fumando la shisha.

Nightlife a Ramallah
Nightlife a Ramallah

Mia madre lo sa che vado in giro per locali. Non che l’idea le piaccia, ma lo accetta. Ho studiato, e con ottimi risultati. Lavoro parecchio. Sono una brava figlia. Un giorno mi sposerò. Ma quel giorno, ecco, non è ancora arrivato.

Questo è una delle testimonianze che la Selasi ha raccolto nel suo viaggio nella Ramallah by night. Storie di ragazze trentenni che amano flirtare, bere e fumare, come qualsiasi altra ragazza europea o americana. Eppure c’è un limite invalicabile che anche loro non riescono o non vogliono superare. Quando la Selasi le domanda se sono mai state con un ragazzo ebreo, ecco che la loro apertura e la loro spensieratezza si trasformano in rigidità e imbarazzo. In un milieu in cui nessuna regola vale, ne resiste una: gli arabi non vanno con gli ebrei. Se una ragazza palestinese si frequenta con un ragazzo ebreo viene subito giudicata come “quella che va a letto con il nemico”. Neppure la storia d’amore di Darwish attecchisce perché: “lui era uomo e all’epoca era parecchio giovane“.

storie d'amore tra israeliani e palestinesi
Foto: Justin Lane/EPA

Ma c’è di più. Se una palestinese si frequenta con un ebreo inizia a chiedersi se lui la vede come una pari o se il suo interesse per lei non sia solo una forma di esotismo, una curiosità sessuale nei confronti dell’Altro. E lo stesso vale, ovviamente, per un ragazzo palestinese con una ragazza ebrea. È la disparità di potere nella coppia che nasce in un contesto razzista e che alla fine finisce sempre per destabilizzare la relazione. Un esempio interessante è la storia di Esther, altra ragazza intervistata dalla Selasi. Esther è una studentessa universitaria ebrea che vive a Gerusalemme. Da qualche anno ha una relazione con Diaa, un palestinese d’Israele. Ogni volta che Esther racconta della sua relazione lo fa con un un certo nervosismo, come se avesse paura che qualcuno la possa sentire. Anche se i suoi genitori adorano Diaa (“Mio padre gli scrive messaggi di continuo, sempre in arabo“), la nonna si è rifiutata di incontrarlo. E i genitori di Diaa non sono nemmeno al corrente dell’esistenza di Esther. Raccontando della sua relazione, la ragazza si è soffermata su un episidio, quello del loro ritorno da un viaggio negli Stati Uniti, emblematico di una relazione interrazziale a queste latitudini:

Stavamo per passare il primo controllo di sicurezza in Turchia e lui mi ha detto: ‘Se mi trattengono, tu vai avanti e basta. Non aspettarmi.’ E quando siamo atterrati in Israele, eccoli lì, giusto oltre la porta appena siamo scesi dall’aereo. Non so se sapessero che Diaa era su quel volo. Lo hanno fermato subito. Proprio all’istante, prima ancora che potesse prendere una sola boccata d’aria della sua terra. Io ero fuori di me. Sapevo che lì all’aeroporto hanno una piccola prigione, e non volevo allontanarmi da lui. Allora ho fatto qualche passo, poi mi sono fermata, come in attesa, e se ne sono accorti. Mi hanno chiamata e mi hanno chiesto tutti i miei dati. Non è successo nulla di che. Ma quando ce ne siamo andati, lui era arrabbiato con me. Non voleva che mi mettessi nella posizione di chi deve difenderlo. Qualcosa in quella situazione lo faceva sentire molto debole, molto a disagio.

In un contesto culturale e politico in cui sia in Palestina che in Israele stanno prevalendo posizioni conservatrici, per un uomo palestinese, che vive in una società che privilegia un modello patriarcale, farsi difendere da una donna deve essere un duro colpo alla propria identità virile. E questo tipo di situazione complica la nascita di rapporti tra israeliani e palestinesi; come conferma Esther, nessuno dei suoi amici ha questo tipo di relazioni “perché è troppo faticoso“. Per quanto possa esistere un istinto naturale a mescolarsi, le barriere culturali, legali e logistiche scoraggiano qualsiasi tipo di relazione. E al di là di tutto, è sempre un pericolo. Sia le autorità israeliane che quelle palestinesi usano il ricatto come forma di controllo: scattano fotografie in momenti compromettenti e poi minacciano di rendere pubblici quegli scatti se il soggetto non collabora.

Il 17 agosto 2014 Mahmoud Mansour, palestinese con passaporto israeliano, ha sposato Morel Malka, ragazza ebrea convertita all’Islam. I matrimoni interreligiosi non sono riconosciuti in Israele, se Morel non si fosse convertita non si sarebbe potuta sposare. Il matrimonio ha creato non poco clamore, soprattutto, a causa dell’organizzazione israeliana di estrema destra, Lehava (acronimo ebraico che significa Contro l’assimilazione in Terra Santa), che sulla sua pagina Facebook aveva invitato i suoi militanti a fare irruzione al matrimonio con striscioni e megafoni. Vennero dispiegati centinaia di poliziotti per evitare scontri o peggio. Sempre la stessa organizzazione estremista nel 2013 si era fatta promotrice di un’ignobile iniziativa: un servizio telefonico che permetteva di denunciare le donne ebree sospettate di frequentare uomini arabi. Il messaggio telefonico recitava così:

Se siete in contatto con un goy (termine dispregiativo per qualsiasi uomo non ebreo) e avete bisogno di assistenza, digitate 1. Se conoscete una ragazza impegnata con un goy e volete aiutarla, digitate 2. Se conoscete un goy che si spaccia per ebreo o molesta donne ebree, digitate 3.

Ma questo vale anche a parti invertite. La regista Ibtisam Mara’ana è stata condannata dai suoi connazionali per aver sposato un ebreo. Ed è interessante che abbia realizzato il documentario Write down, I am an Arab non tanto per raccontare la storia d’amore di Darwish, ma per legittimare la sua. Nel 2015 il romanzo Borderlife di Dorit Rabinyan era stato inserito come libro di testo nelle scuole in Israele. Il libro racconta la storia d’amore tra un pittore palestinese e una traduttrice israeliana. Un’opera che cercava di stimolare le relazioni tra fedi diverse. Proprio per questo il Ministro dell’Istruzione ne ha vietato l’adozione. Quello che le istituzioni stanno portando avanti è rendere l’amore una questione di fede o peggio di razza. Nella sue memorie Darwish, ricordando Rita, scrive:

L’anno successivo scoppiò la guerra e io finii nuovamente in prigione. Pensavo a lei: cosa starà facendo adesso? Magari era Nablus o in un’altra città, magari impugnava un fucile leggero come quello dei conquistatori, e forse in quel momento stava ordinando ad alcuni uomini di alzare le braccia sopra la testa, bella come era bella lei.

Nonostante il poeta fosse costretto ad immaginare la sua amata nei panni dell’invasore, ne vedeva ancora la bellezza. È forse questa la lezione più importante che ha lasciato alle nuove generazioni di arabi ed ebrei: nonostante le differenze culturali, nonostante le barriere che la società pone tra di loro, che non dimentichino mai che la bellezza esiste anche al di là del fronte.

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