Redskins

I Redskins cambiano nome, presa di posizione o marketing?

Il movimento Black Lives Matter sta stravolgendo il mondo che conosciamo, o meglio, che conoscevamo. A pagare il conto del processo in corso sono re, ammiragli, statisti e tutti coloro che in qualche passo della propria carriera politica hanno incoraggiato o esasperato lo sfruttamento, lo sterminio, adottando motivazioni razziali. Ma la politica e i suoi simboli non sono gli unici obiettivi dell’attacco sferrato dal movimento. A fare scalpore qualche giorno fa è stata la notizia che i Washington Redskins avrebbero cambiato nome. Questione ampia e che travolge diverse sfere sociali, culturali ed economiche dell’America del 2020. 

Per la verità la polemica sul nome Redskins non nasce oggi e neanche ieri. Da almeno vent’anni infatti, la squadra di Washington è sotto accusa per la parola dalla chiara connotazione razziale, se non vogliamo dire razzista. Pellerossa è una parola che nasce in America all’inizio del Novecento quando si cercava di classificare la popolazione in base al colore della pelle, quindi bianchi (detto dai coloni europei di se stessi), neri e pellerossa. Nel 2013 quando le prime battaglie legali furono intentate contro il presidente della squadra di Washington, Daniel Snyder, lui stesso disse (anticipando di qualche anno il post di pochi giorni fa di Donald Trump) che il nome Redskins non sarebbe mai cambiato perché sinonimo di forza e coraggio, un grande omaggio alla cultura indiana. A corroborare questa affermazione forte c’erano almeno due ragioni. La prima era che William Henry “Lone Star” Dietz, mitologico allenatore della squadra di Washington, negli anni ’30 sarebbe il motivo del nome Redskins per via di una mai provata discendenza indiana che secondo molti sarebbe solo una trovata di Snyder. La seconda è che i Redskins vanterebbero una devozione alla causa indiana, mai confermata dai diretti interessati. Ma la faccenda al di là della difesa di facciata di Snyder e soci, peraltro travolti in queste settimane anche da uno scandalo sessuale, è molto più profonda e complessa anche perché non tutti i tifosi spingono per questo cambiamento.

Basti pensare che tre diversi sondaggi condotti tra i nativi americani sull’uso della definizione di “pellerossa” hanno dato esito negativo, la maggior parte di essi non si é detta offesa o turbata da quella definizione. Aggiungiamo che il simbolo dei Redskins riprende l’effige dei 5 centesimi in uso tra il 1913 e il 1935 in America, ovvero la testa di un uomo indiano disegnato dallo scultore James Earle Fraser. Interessante notare come Fraser volesse rappresentare con quella moneta “qualcosa di assolutamente americano” e gli parve che nulla più di un indigeno americano rappresentasse quella terra. Difficile capire se Fraser fosse stato uno provocatore o un ingenuo, fatto sta che su quella moneta non arriverà mai la scritta God Bless America, trasformando l’Indian head nickel in un pezzo da collezione rarissimo e preziosissimo. Ma allora cosa c’è dietro la cancellazione del nome promessa dalla società di Washington? Chi davvero vuole questo cambiamento? Per capire da dove arriva questo bisogno di cambiamento bisogna partire da Richard Lapchick, professore di Scienze politiche, attivista e sopravvissuto all’età di quattordici anni al campo di Dachau. Lapchick oltre ad essersi occupato di storia e diritti civili ha da sempre intuito il rapporto forte che c’è tra lo sport e la costruzione degli stereotipi nella mente. Questa convinzione che lo sport possa cambiare le abitudini e gli stereotipi razzisti lo ha portato a lavorare in Sudafrica su invito di Nelson Mandela in persona.

Lapchick spiega che quello che si nasconde dietro la definizione di “pellerossa” e, ancora di più, dietro all’immagine della testa di un nativo americano è lo stereotipo del buon selvaggio, definizione, inopportunamente affibbiata a Jean Jacques Rousseau, in cui si mescola un certo paternalismo ad una forte dose di stereotipi. Non per forza questi accostamenti sarebbero “cattivi” o immediatamente negativi, ma l’idea stessa di rinchiudere una popolazione così ampia di persone che condivide alcuni tratti somatici sarebbe di per sé prodromo di un’ immagine razzista e classista. La profondità della forza degli stereotipi soprattutto nello sport è talmente ampia (come dicevamo all’inizio citando alcuni sondaggi) che persino alcuni appartenenti alla popolazione presa di mira dai pregiudizi non percepirebbero il senso di offesa derivante da alcuni appellativi.

La questione culturale appare ancora in via di definizione, ma qualcuno già sospetta che dietro la decisione della dirigenza dei Redskins ci sia qualche altro motivo. Non si è posto il problema quando il presidente Obama aveva posto la questione nel 2013 e neanche Alexandria Ocasio-Cortez era stata ascoltata qualche mese quando avevo detto: “Vogliono davvero fare qualcosa per i nativi americani? Inizino cambiando nome”. Sorprendente è stata invece l’inversione di marcia avvenuta dopo che a giugno un gruppo di investitori dei principali sponsor della squadra aveva minacciato di ritirare le proprie quote di partecipazione. FexEd il 3 Giugno ha ritirato la propria sponsorizzazione e da lì a pochi giorni Nike, Pepsi e Amazon hanno oscurato ogni riferimento alla squadra di Washington. Di fronte alla minaccia economica la dirigenza Redskins ha improvvisamente cambiando rotta e senza troppe parole ha annunciato attraverso i propri canali la decisione di cambiare. Una chiara operazione di redwashing, ovvero di pulizia per quanto riguarda diritti ed uguaglianza sociale, un po’ quello che abbiamo vissuto con il greenwashing. Ovviamente l’opinione pubblica non ha considerato sincera questa inversione di marcia della squadra di Washington, ma appare evidente che il rispetto delle diversità nello sport debba passare ancora prima che dalla presa di coscienza, processo lungo e tortuoso, da quello della presa di posizione. Salutiamo quindi la nuova squadra di Washington in attesa di scoprire esattamente qualche sarà il nuovo nome scelto.

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