jack london boxe

I pugili di Jack London

C’è una patina di amarezza nella letteratura di Jack London: i suoi protagonisti sono tesi verso una continua lotta per emergere, per superare le continue difficoltà che man mano si affacciano nel loro cammino. Del resto, la vita stessa di London è stata una continua lotta. Non deve perciò sorprendere che l’unico sport in cui lo statunitense riuscì a trovare una scintilla fu la boxe. Da giovane era stato un pugile prima di cimentarsi in vari lavori e avventure (fece lo strillone di giornali, il pescatore clandestino di ostriche, il lavandaio, il cacciatore di foche, il corrispondente nella guerra russo-giapponese, l’agente di assicurazioni, il coltivatore e il cercatore d’oro), perché il pugile non è “solamente un bruto, una bestia, un selvaggio primitivo, un pazzo che gode a farsi riempire la sua stupida faccia di pugni“, come fa dire alla nobildonna ecuadoriana Maria Valenzuela nel racconto La follia di John Harned. 

I pugili di Jack London sono degli emarginati, degli sconfitti già prima di salire sul ring. Non lottano mai per la gloria, ma per qualcosa di più concreto. C’è chi combatte per poter sfamare la propria famiglia ormai sul lastrico, chi per finanziare una rivoluzione nel proprio Paese, chi per smascherare la corruzione della boxe stessa, e chi per sostenere la madre e le sorelle. Per lo scrittore la boxe è un mezzo per tirare avanti, forse il più veloce. Non c’è gloria qui, solo sopravvivenza.

Dietro le sue spalle, Tom guardava la stanza spoglia. Era tutto ciò che aveva al mondo, insieme all’affitto arretrato, a lei e ai ragazzi. E stava per lasciare tutto e uscire nella notte in cerca di cibo per la sua compagna e i suoi cuccioli – non come un moderno operaio che si rechi in fabbrica, ma nel modo antico, primitivo, regale, quello degli animali: lottando per conquistarlo.

dal racconto Un pezzo di bistecca
jack london boxe

Sono personaggi che cercano di emergere, e il denaro che la boxe può procurare loro è la variabile delle dinamiche delle loro storie, che potremmo definire a sfondo marxista. Ma un marxismo teso “all’esaltazione del primitivo e con una tendenza fascista“, come lo definì Orwell. Leggendo questi racconti, emergono due filosofie apparentemente in contrasto tra loro: da un lato il darwinismo sociale di Spencer, e dall’altro la teoria dell’Oltreuomo di matrice nietzschiana, la quale sosteneva che il concetto di lotta per la vita e la morte doveva essere la regola delle comunità umane. Marxista e nietzschiano dunque, ma anche socialista e razzista, sognatore e pragmatico che spese metà della sua vita in strada e l’altra metà nei salotti. Questa continua tensione tra un polo e un altro si impersonifica nei suoi pugili che non sono mai veramente buoni, pur essendo sempre i più deboli, perché i più poveri.

La situazione non era affatto incoraggiante, ma Rivera non ci fece caso. Non sopportava l’idea di doversi battere per soldi; e detestava la boxe, era lo sport dei gringos. Si era adattato a fare da incassapugni perché moriva di fame. Il fatto che fosse meravigliosamente tagliato per quello sport non significava niente. Lo odiava.

dal racconto Il messicano

La boxe negli anni di London stava affrontando un profondo cambiamento: dalle tradizioni secolari di uno sport di nicchia si stava evolvendo, adottando modalità organizzative più inclusive per assecondare le richieste di un pubblico sempre più numeroso. Un cambiamento che London visse con una certa sensibilità e spaesamento. Ma a cambiare non erano solo i pugili; tutta quella gerarchia antropologica che fa da contesto ai due combattenti stava mutando completamente. Dagli spettatori, i più famelici, dagli istinti animali, agli allibratori, che non si fanno scrupolo di nulla; dagli organizzatori, alla ricerca di nuova carne da dare in pasto al pubblico, agli assistenti, sempre al soldo dei primi. 

Al di là delle corde, sotto cui doveva passare per rientrare nel ring, lo attendeva Danny. L’arbitro si teneva a debita distanza. Il pubblico era fuori di sé dalla gioia. “Ammazzalo, Danny! Ammazzalo!” gridavano tutti all’unisono. Le voci si fondevano in un crescendo delirante, fino a diventare simili a un canto di guerra, all’ululato di caccia di un branco di lupi.

E poi ci sono loro: i pugili. Sono uomini solitari che non hanno un futuro. La loro occasione si consuma in quello che per tutti è l’ultimo incontro. È uno sport violento, ma non ci sono illusioni. Certo, ci sono incontri truccati e scorrettezze, terribili come quelle affrontate dal giovane rivoluzionario Rivera, ma i colpi sono veri, i nasi sono rotti per davvero, le labbra sono spaccate realmente, i lividi sul volto, sulle braccia e sul petto non sono un trucco, il sangue non è finto. La vita del pugile segue la legge del sacrificio e degli allenamenti impossibili, e se all’inizio i soldi arrivano facilmente, con il tempo le vittorie scarseggiano e con esse tutto quello che ne consegue. Stanchi, pieni di acciacchi e di ossa rotte, i pugili vivono il tramonto della loro carriera con terrore, perché perdono tutto. Da lì in poi c’è la vita reale. Quella di un lavoro, di una famiglia da sfamare, di una vecchiaia da proteggere. 

Mentre attraversava il Domain, si sedette all’improvviso su una panchina, spaventato al pensiero che sua moglie lo aspettasse in piedi per conoscere l’esito dell’incontro. Era peggio di qualsiasi knockout, gli sembrava impossibile affrontare una cosa del genere. Si sentì debole e indolenzito, e il dolore alle mani gli ricordò che, anche se trovava lavoro al cantiere, ci sarebbe voluta una settimana prima di riuscire a tenere in mano un piccone o una pala. La palpitazione alla bocca dello stomaco gli dava la nausea. Sopraffatto dalla disperazione, sentì gli occhi inumidirsi. 

Non si tratta solo di dare cazzotti. Bisogna resistere e colpire, agire d’istinto e pianificare le prossime mosse con la speranza che questo possa funzionare non solo sul ring ma anche nella vita. L’alternativa sarebbe quella di finire al tappeto e non rialzarsi più, come capitato a Joe Fleming, il protagonista del racconto The Game. La boxe per molti non è una scelta, ma l’unica soluzione possibile per andare avanti, anche se il rischio è alto. Alla fine i pugili di Jack London siamo tutti noi. Sono io. Sei tu.

About

Zeta è il nostro modo di stare al mondo. Un magazine di sport e cultura; storie e approfondimenti per scoprire cosa si cela dietro le quinte del nostro tempo,

Altre storie
razzismo sport
Il razzismo nello sport: da Don Haskins e Muhammad Ali a Koulibaly e Kean